venerdì 8 ottobre 2010

MONTE OLIVETO E LA SUA STORIA PARTONO DA QUI

I SACERDOTI CHE CELEBRAVANO AD ACONA

Se è certo che la storia più documentata si realizza da testimonianze scritte, quanto più vera e documentata è la storia realizzata e ricavata da Atti notarili.
Per gli inizi della storia dell’abbazia di Monte Oliveto uno dei primi notai che hanno rogato per il territorio intorno ad Acona, nome della località etrusca dove è sorto Monte Oliveto Maggiore, è appunto il notaio OLIVO DA SIENA.

Nell’Archivio di Stato di Siena, Notarile N° 26 abbiamo un protocollo di imbreviature di 22 carte con numerosi atti riguardanti in particolare il territorio di Chiusure e di Melianda, ambiti molto vicini e interessanti per la nostra storia.
Oltre alle decine e decine di atti rogati a Chiatina, ce ne sono almeno tre rogati a Bollano, dipendenza di Monte Oliveto, che si riferiscono certamente al periodo in cui i Fondatori di Monte Oliveto erano appena arrivati ad Acona.
Infatti alcuni atti notarili si riferiscono a sacerdoti dimoranti nelle vicinanze di Acona negli anni 1315-1316 quando i tre nobili senesi ancora vivevano nelle grotte e facevano celebrare la santa messa da sacerdoti vicini e ben conosciuti; come con precisione annota il nostro storico delle origini Antonio da Barga.
Ecco i nomi dei sacerdoti:

1) ASS. Notarile,26, c.6v.1

1315 20 gennaio
Atto rogato nella curia di Chiusure in luogo detto BOLLANO davanti a Petruccio.
“Io presbitero Benedetto rettore della chiesa di Santo Stefano di Ovile della diocesi di Siena, nella villa del locatore dato in affitto “loco et concedo vobis presbitero Stefano” Rettore della chiesa di San Biagio di Neci della detta diocesi et a Giulio Martino Rettore della chiesa di San Pietro di Grè della diocesi di Arezzo
la detta chiesa di Santo Stefano e le possessioni della stessa chiesa di sant’ Oncle (!) a lei pertinenti della detta chiesa e le possessioni della stessa che si riferiscono a Sant’Angelo ….”

2)ASS:Notarile 26, c.6v.2

1315 20 gennaio. Atto fatto nella curia di Chiusure nel luogo detto BOLLANO davanti a Petruccio Borbolini e Minuccio Jacobini testimoni presenti e richiesti. Noi presbiteri e sacerdoti rettori della chiesa di San Biagio di Neci della diocesi di Siena e Giulio Martino rettore della chiesa di San Pietro di Grè della diocesi di Arezzo confessanti e riconoscenti con questa parabola a Benedetto rettore della chiesa di Santo Stefano della diocesi di Siena attestiamo che conduce e abbia condotto la detta chiesa di Santo Stefano di Ovile per il popolo della stessa chiesa “..ad affictum aspectante Sancti Angeli de monasterio edificando..”

Ecco allora che da questi due documenti conosciamo i nomi dei sacerdoti che vivevano vicino ad Acona poi detto Monte del’oliveto.
1) Benedetto rettore della chiesa di Santo Stefano di Ovile.
2) Stefano presbitero e rettore della chiesa di San Biagio a Neci.
3) Giulio Martino rettore della chiesa antica di San Pietro a Grè.



DOCUMENTI DEGLI INIZI DI MONTE OLIVETO

(1319 – 1348)

Dei 120 atti che potremmo ricavare dai 51 codici manoscritti che si trovano nell’Archivio di Stato di Siena (ASS:Conventi 179-230) di cui diamo in calce le date e i nomi dei Notai che li hanno rogati, offriamo qui di seguito i 38 documenti che interessano maggiormente la storia dei primi fondatori fino alla data della peste del 1348.

1) Fr. Bernardo e F. Patrizio avendo ottenuto promessa...con la clausola
solamente che nè all'abate nè ad altri fosse permesso di conferire i
sacramenti a quelli dell'altra parrocchia.
Fanno avanti i testimoni la formale cessione dei suddetti due poderi Acona
e Melanino nel distretto di Siena vicino a Tura Patrizi, alla Casella di
Cenni......Rogato Guadagno del q. Ser Giunta
26 marzo 1319. Rogato Guadagno del q. Ser Giunta.
1 A 291 179 c 2
26 marzo 1319 - Rogato Guadagno del q. Ser Giunta

2) F. Ambrogio Piccolomini Abate di Monte Oliveto convocato il Capitolo
assieme a F. Bernardo del q. Mino e F. Patrizio del q. Francesco
presentano nello Spedale di S. Maria ante gradus di Siena al medesimo
Gregorio Rettore la consaputa lettera per effettuare la vendita suddetta di
Melanino (cfr. supplica al vescovo Guido d'Arezzo e l'incarico affidato da
Guido d'Arezzo con lettera a Gregorio Rettore di s. Pietro di Melanino)
ed edificare così il Monastero.
Aprile 1320. Rogato Galgano del q. Ventura.

"Reverendus, honestus vir fr. Ambrosius abbas monasterii sancte Marie de
Monte Oliveto in Acona, aretin. dioc., existens in civitate Sen:, in hospitali
s. Marie ante gradus de Senis, ibi existente presbitero Gregorio, rectore
ecclesie s. Petri de Melanino dicte dioc., presentavit coram notario has
licteras: “ Guido miseratione divina episcopus aretin. provido et discreto
viro presbitero Gregorio, rectori ecclesie s. Petri de Melanino, plebatus
plebis s. Iohannis in vescona, nostre dioc. aretin., salutem in Domino
sempiternam. Religiosi et prudentes viri, abbas et capitulum s. M.de
Oliveto in Acona, fecerunt humiliter supplicari ut cum ad perfectionem
ipsius mon. totis viribus elaborent nec absque venditione immobilium id
perficere valeant ullo modo, licentiam vendendi potere quod habent in
Melanino concedere dignaremur. Praeterea cum sint mulieres que cupiunt
in constructione monasterii octuaginta libras usualis monete impendere,
dummodo eis per venditionem seu aliquo iusto titulo tantum de bonis
ispius mon. assignetur, quod quantitatem LXXXI librarum capiat; que
bona tenere valeant si accidat monasterium ipsum non subsistere in regula
ordinata ibidem: quod cautionem huiusmodi facere possent plenariam
supplicarunt. Nos licet credamus fratres eiusdem loci negotia ipsius mon.
velle in omnibus utiliter procurare, quia tamen de predictis notitiam non
habemus et eis placere cupiamus ac votis satisfacere ipsorum in hiis
potissime que utilitatem respiciant mon. memorati, discretioni tue
commictimus quatenus si premissa cedant in utilitatem ipsius monasterii
et ad id accedat consensus abbatis et capituli, faciendi contractum
venditionis poderis prefati de Melanino plus offerenti, ac assignandi ipsis
mulieribus de bonis ipsius mon. usque ad quantitatem (L)XXX libr.
prescritptam tribuas facultatem; sub conditione quod reddantur monasterio
prelibato et convertantur in possessionibus aptis poderis et propinquis.
Datu Aretii die II aprilis, III ind., anno a nat. Domini MCCCXX.
- Quas licteras idem presbiter Gregorius vidit ad informationem sui ut suo
domino in spiritualibus opbediret in dicto hospitali civitat. sen. sub anno
Domini MCCCXX, ind. III, die.. mensis aprilis, coram fr. Bernardo, et fr.
Patricio fratribus dicti mon., testibus.”
2 A 291 179 c 9,2
dopo il 2 aprile 1320 - Rogato Galgano del q. Ventura

3) Fr. Ambrogio del q. Mino, Abate del monastero di Monte Oliveto
convocato il Capitolo fra i quali era Fr. Bernardo del q. Mino, Patrizio del
q. Francesco, vedendo mancargli il denaro per la Fabbrica del Monastero,
e per altre indigenze stabilisce col comune consenso di vendere un pezzo
di terra posto nella curia di Chiusure nel luogo detto Acona, che da tre
parti termina con la strada e da una con Lando di Matteo, un altro nel
luogo detto Ripalta, che termina col detto Lando, con i figli di Guglielmo
e con la strada, un altro posto nella curia di Melanino, nel luogo chiamato
Artainino che termina con la strada, con Ture Patrizi, con gli eredi di
Gozzo e col Vallone.
18 maggio 1320. Rogato Giovanni del q. Ventura.
3 H 297 186 c 39
18 maggio 1320 - Rogato Giovanni del q. Ventura.

L'abate Lugano ha un errore dicendo Arc. di M. O., vol. A 1 (290) invece
è 291
4) Fr. Bartolomeo Priore claustrale assieme al Capitolo di Monte Oliveto
distintamente nominato elegge Fr. Simone Ture e fr. Mauro di Giovanni
per procuratori in solidum ad effetto di terminare con D.Giovanni
Cardinale di S. Teodoro legato della Sede apostolica l'interesse della
Postulazione che tutti fanno di Fr. Bernardo del q. Mino, volendo gli sia
conferita l'abbazia ora vacante per la spontanea rinunzia già fattane da Fr.
Simone.
17 novembre 1326. Rogato Pietro d'Ajuto.

Dompnus Bartholomeus prior claustralis mon. s. M. de oliveto, ordinis S.
Benedicti, aretin. dioc. et ut procurator dompni Philippo Mochi ed domni
Patricii Francisci, et dompnus Ambrosius Nini, d. Symon Ture, d. Andreas
Andree, d.Vannes Nini, d. Iacobus Mini, d. Francischus Michi, d. Paulus
Mini, d. Antonius Mei, d. gregorius Vannis, d. Lucas Pieri, d. Micchael
Necti, d. Bonus Ghini et d. Ventura Mini, monaci dicti mon. congregati ad
capitulum, constituerunt dompnum Symonem Ture et d. Maurum Iannis,
monacos dicti mon., procuratores ad comparendum coram reverendo patre
et domno Iohanne s. Theodori diac. card. apostolice sedis Legatum
eiusque auditores, pro negotio postulationis celebrate de religioso viro
dompno Bernardo, olim domni Mini, monaco dicti mon., postulato ad
dictum mon. quod nuper vacavit per liberam resignationem dompni
Symonis quodam abbatis dicti mon., ipsumque negotium contingentibus,
et a d omnia facienda que natura debite instructionis in huiusmodi negotio
facienda exigit.
Actum in ecclesia dicti mon., coram Donato Petre, Lonardo Ducci et
Ceccho Gherardi, testibus.
17 novembre 1326 - Petrus not.
(Sono 17 monaci che erano presenti in questo atto capitolare e cioè:
1) D. BARTOLOMEO di Mastro Mino priore claustrale
2) D. FILIPPO Mochi da s. Maria di Monte Oliveto
3) D: PATRIZIO di Francesco (Patrizi)
4) D. AMBROGIO di Nino ( o Mino Piccolomini)
5) D. SIMONE Tura
6) D. ANDREA di Andrea
7) D. VANNE di Nino
8) D. GIACOMO Mini
9) D. FRANCESCO Michi
10)D. PAOLO Mini
11)D. ANTONIO Mei
12)D. GREGORIO Vanni
13)D. LUCA Pieri
14)D. MICHELE Necti
15)D. BONO Ghini
16)D. VENTURA Mini
17)D. MAURO di Gianni

costituiscono procuratori presso il Cardinale Legato:
Don Simone Tura e
Don Mauro



4 A 291 179 c 8
17 novembre 1326 - Rogato Pietro d'Ajuto

5)Giovanni diacono Cardinale di San Teodoro legato della Sede Apostolica,
bramando provvedere alla utilità di Santa Maria di Monte Oliveto,
sapendo che dopo l'accesso ed informazione nel medesimo Monastero
fatta da Adamaro Priore di San Giovanni e da Angelo Priore di
Grossennano da esso deputati veruno dentro il termine prefisso aveva
opposta cosa alcuna all'incontrario, ed anzi i monaci Giacomo di Mino,
Procuratore di Bernardo, Simone di Ture e Mauro di Giovanni,
Procuratori del Capitolo l'avevano supplicato che fosse al detto Bernardo
conferita l'Abbazia, sebbene abbia questa infermità negli occhi e
solamente abbia gli ordini minori, ammette nulla di meno la loro
postulazione ad una tale dignità, che ad esso si appartiene il conferirla,
essendo ora vacante per la rinunzia, che il prenominato Simone Ture a
requisizione del suddetto Convento secondo la consuetudine ne ha fatta in
mano di Filippo da Orvieto vicario di Boso allora Proposto ed
amministratore e adesso Vescovo eletto della Chiesa aretina "la concede al
prefato Bernardo, sperando che egli 'defectum praefatum probitate
suppleat meritorum et quod monasterium ipsum et personae et dona ipsius
sub illius regiminis cura feliciter dante Domino debeat prosperari'.
21 novembre 1326.
L'abate Lugano ha la data del 23 dicembre 1326, mentre come abbiamo
sopra la data è del 21 novembre 1326.
"Iohannes, s.Theodori diac. card. apost. sedis Legatus, Bernardo ab. mon.
s. Marie de Oliveto, ord. s. Benedicti, aretin. dioc. -
Monasterio per cessionem ab. Simonis Ture vacante, prefati conventus ad
quos abbatis electio in illo noscitur pertinere, "te cum sis tantum in
minoribus ordinibus constitutus et patiens in visu defectum, in eorum et
dicti mon. abbatem concorditer postularunt" supplicationes postulationem
eandem admittere. Datis litteris s. Iohannis de Asso et Bentese ac
grossenan. secularium ecclesiarum prioribus, ut ad locum personaliter
accedentes, auctoritate nostra, edictum publice pronuntiarent et
contradicentes causam rationabilem ostenderent; nullus oppositor vel
contradictor apparuit; et Nos volente eiusdem monasterii indempnitatem
providere, "sperantesque quo defectum prefatum probitate suppleas
meritorum et quod mon. ipsum ac persone et bona ipsius sub tui cura
regiminis feliciter, dante Domino, debeant prosperari, postulationem
eandem admittimus gratiose, teque ordinem ipsum expresse professum in
abbatem illius, auctoritate qua fungimur, preficimus iuxta consuetudinem
memoratam, ti "curam et administrationem ipsius in spiritualibus et
temporalibus plenarie committendo. Tu igitur curma sic sapienter
5 A 291 179 c 9
21 novembre 1326 - Rogato Giovanni diacono Cardinale di S. Teodoro

6) Giovanni di Pietro cittadino senese offerisce se stesso e tutti i suoi beni
mobili ed immobili a Fr. Bernardo del q. Mino Abate di Monte Oliveto,
promettendo ad esso e ai suoi successori ogni riverenza ed obbedienza e di
vivere in perpetua castità secondo la regola di S. Benedetto.
3 settembre1332. Rogato Giovanni del q. Ventura.
6 BA 332 221 c 1
3 settembre 1332 - Rogato Giovanni del q. Ventura.

7) Fr. Biagio de Ripe Vescovo Gialidense col mezzo del suo testamento
ordina di essere sepolto nella chiesa di Monte Oliveto, alla quale lascia un
suo libro detto Pontificale ed un altro detto Sermonale. Al monastero di S,
Benedetto di Siena lascia un Breviario ed al monastero di S. Bernardo
d'Arezzo lascia un messale, annullando con la presente disposizione ogni
altro testamento e costituendo nel tempo stesso per suo esecutore o Fide
commissario Fr. Bernardo di Mino Tolomei abate di Monte Oliveto che si
trovava esso Biagio nel detto monastero di S. Bernardo d'Arezzo.
3 giugno 1333. Rogato Francesco del q. Ser Baldo vice d'Arezzo.

"Reverendus pater domnus Blasius de Ripe episcopus Gialidensis, per
testamentum suum, mandavit corpus suum sepeliendum apud eclesiam s.
M. de monte oliveto et dare constituit pro remedio anime sue unum suum
librum dictum pontificale dicto mon. s. M. de monte oliveto; et reliquit
loco s. benedicti de senis, eiusdem ordinis, unum suum breviarium et loco
s. Bernardi de Aretio, eiusdem ordinis, unum suum missale et monasterio
s, M. de monte Oliveti, comitat. Sen. unum suum sermonale: ad que legata
exequenda reliquit executorem et fidei commissarium domnum fr.
bernardum domni Mini de Tolomeis de Senis ab. mon. s. M. de monte
oliveto, presentibus reverendo viro dompno Bernardo ab. eiusdem mon.,
et fratre Simone Ture, priore dicti mon.
- Franciscus olim ser Baldi Vive de aretio, not."
7 BA 332 221 c 2
3 giugno 1333 - Rogato Francesco del q. Ser Baldo.

8) Fr. Bernardo del q. Mino da Siena abate di S. Maria di Monte Oliveto...
elegge Fr. Bartolomeo de Mino in suo Procuratore ad esigere tutto ciò che
a lui appartiene in vigore del lascito di Fr. Biagio vescovo Gialidense.
25 luglio 1333.
(L'abate Lugano sbaglia il giorno mettendo il 15 luglio, mentre è il 25
luglio)

"Sapiens honestus et discretus domnus Bernardus olim domni Mini ab.
mon. s. M. de Oliveto in Acona, constituit fr. Bartholomeum Mini,
monachum dicti mon. procuratorem, ad recipienda omnia bona que
fuerunt venerabilid pastris domni Blasii Dei gratia episcopi Gialidensis,
cuius dictus domnus Bernardus ab. asseruit fidei commissarium esse.-
Actum in ecclesia dicti mon. in loco dicto Acona.
Iohannes olim Venture not.
8 BA 332 221 c 3
25 luglio 1333 - Rogato Fr. Bernardo di S. Maria elegge

9) Diversi monaci con tutti i nomi offrono se stessi con i loro beni a Fr.
Bernardo:
31 agosto 1336.
9 BA 332 221 c 5
31 agosto 1336 - Rogato Diversi monaci con tutti i loro

10) Fr. Pietro di Donato Peruzzi, Fr. Gabriele di Giacobino, Fr. Bandino di
Michele, Fr. Cenne di Nicola e Fr. Michele di Sano (o Tano ?) tutti di
Fiorenza e Fr.Antonio di Cristofano da Oliveto, volendo lasciare il mondo
offeriscono a Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei, abate di S. Maria di
Monte Oliveto tutti i loro beni mobili ed immobili, promettendo di vivere
in obbedienza e castità perpetua secondo la regola di S. Benedetto.
4 settembre 1336.Rogato Giovanni del q. Ventura.
10 BA 332 221 c 6
4 settembre 1336 - Rogato Giovanni del q. Ventura.


11) Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei col consenso di Fr. Patrizio, di Fr.
Ambrogio, di Fr. Tommaso di Minuccio ed altri eleggono Fr.
Franceschino di Guiduccio, Fr. Bartolomeo di Minoccio e Fr. Simone
Tendi come procuratori che singolarmente o insieme possano
validamente ricevere doni..ecc..
4 settembre 1336. Rogato Giovanni del q.Ventura.
cfr. documento del mandato in A. M.O.M. al 4 settembre 1336 N.4
della cassetta B 12.(Ap. al Reg: IV, d.4).

"Sapiens discretus et onestus vir domnus
- Bernardus olim domini Mini de Tolomeis de Senis, ab. mon. s. M. de
mionte oliveto in Acona, in curia de Chisure comitatus Sen. et aretin. dioc.
de consilio
- fratris Patricii olim Francisci,
- fr. Ambrosii olim Nini,
- fr. Thome olim Minucii,
- fr. Gregorii Vannis.
- fr. Symonis Ture,
- fr. Bartholomei magistri Mini,
- fratri Petri Mei,
- fr. Petri Vochatti,
- fr. Luce Ghinolducci,
- fr. PaoliMinucci,
- fr. Chrstophani Franceschini ser Iacobi,
- fr. Iohannis Vannis,
- fr. Donati Guictonis,
- fr. Antonii, fr. Philippi,
- fr. Taddei Stapherani,
- fr. Bernardi Octolini,
- fr. Paoli Nuti,
- fr. Angeli Mannucci,
- fr. Simonis Doni
- fr. Andree Pannarini,
- fr, Paulini Pauli,
- fr. Venturini Mini,
- fr. Alessi Pucciarelli,
- fr. Petri magiostri Guillelmi,
- fr. Francisci Michi,
- fr. Francisci domni Mini,
- fr. Laurenti Andree,
11 AV 329 218 c 21
4 settembre 1336 - Rogato Giovanni del q. Ventura.


12) Con il consenso di Fr.Tommaso del q. Mino, di Ambrogio di Nino, di Fr.
Bernardo Ottolini, di Fr. Patrizio del q. Francesco e di altri il Capitolo
elegge un procuratore come delegato per i monaci a Perugia dal Vescovo
nella persona di Fr. Innocenzio del q. Ser Domenico.
4 settembre 1336. Rogato Giovanni del q. Ventura.
cfr. a.M.O.M.( al n. 5.) 4 settembre 1336 . Mandato di procura nella
cassetta B 12. (Ap. al Re. IV, d.5).

"Venerabilis et religiosus vir
1) domnus Bernardus condam domni Mini de Tholomeis de Senis ab.
mon. s. M. de monte oliveto de Acona, comitatus Se., curie de Chisure,
dioc. aretin., de consilio
2) fr. Thome olim Mini,
3) fr.Ambrosii Nini,
4) fr. Bernardi Octolini,
5) fr. Patricii olim Francisci,
6) fr. Gabrielis Iacobini,
7) fr. Iohannis Petri,
8) fr. Martini Mastinalli,
9) fr. Peroççus Martelli,
10) fr. Christofani ser Iacobi,
11) fr.Taddei Stepherani,
12) fr. Dominici Saltini,
13) fr. Andree Pennarini,
14) fr. Venturini magistri Mini,
15) fr. Francisci domni Petri,
16) fr. Augustini Ture,
17) fr. Paulini Pauli,
18) fr. Simonis Tendi,
19) fr. Antonii Stepherani,
20) fr. Iohannis Peruççi,
21) fr. Mattei ser Herrigi,
22) fr. Blasii Iohannis,
23) fr. Iohannis ser Iacobi,
24) fr. Venture Pantani,
25) fr. Pieri magistri Guillelmi,
26) fr.Mactheucci Ducci,
27) fr. Laurentii Andre,
28) fr. Iacobini Presocçi,
29) fr. Restauri Balducci,
30) fr. Cennis Niccolai,
12 AV 329 218 c 22
4 settembre 1336 - Rogato Giovanni del q. Ventura da

13) (Ap al Reg. IV d.38) 39 c.
"Galleta filius domni Niccoli militis civit. Sen. de domo Ranionum
asserens esse emancipatuum a patre, spontanea voluntate promittit rev.
viro dompno Bernardo condam domini Mini de Talomeis de Sen. ab. mon.
s. M. de Monte Oliveto in curia de Chisure positi, comitatus Sen. et aretin.
dioc., dare in proximis venturis Kalendis mensi septembris apud dictum
monasterium quatuor modios frumenti et decem octo libras bon. den. sen.,
et ab inde in antea quolibet anno in kal. sept. tantundem toto tempore quo
dictus domnus Niccolus stabit in dicto monasterio vel in aliis locis et
membris ipsius: et post eius mortem promittit dare quinquaginta libras
bon. den. sen. Qui domnus Niccolus dicto filio suo Galletta in predicti
omnibus consensit.
- Actum in dicto monasterio, coram magistro Iohanne olim Cini in
grammaticalibus et Bindaccio olim Rosticci, testibus.
- Iohannes not. filius olim Venture de Senis.
39 c
19 agosto 1337 - Rogato Iohannes not. filius olim Venture de Senis.

14) Fr. Bernardo del q. Mino di Cristoforo Tolomei abate di Monte Oliveto
con consenso del Capitolo elegge Fr. Innocenzio del q. Ser Domenico in
Procuratore ad agir le liti tanto civili quanto criminali in qualunque luogo
ed avanti qualunque persona.
4 settembre 1338. Rogato Lando del q. Accorso.

"Congregato capitulo monachorum s. M. Montis Oliveti in Acona, curia de
Chisure, de mandato venerabilis patris et domni fr. Bernardi quondam b.
m. domni Mini Christofani de Talomeis de Senis ab., fratres constituerunt
procuratorem fr. Innocente, olim ser Dominici monacum dicti mon..
- Actum in ecclesia dicti mon.- Landus quondam Accursii not.
13 AV 329 218 c 25
4 settembre 1338 - Rogato Lando del q. Feo Accorso

15) Niccola Ranieri Cav.re senese dona a Bernardo del q. Mino Tlomei
abate di Monte Oliveto tutti i suoi beni mobili ed immobili con i crediti
ancora, che ha con Nello figlio del suddetto q. Mino, provenienti da usura
e da altri consimili modi illeciti ed ogni cosa offre "ad salutem et
remaedium animarum illarum personarum, quibus tenetur aliquid dare et
restituere pro lucro quocumque illicito modo ab eis habito et acquisito".
5 ottobre 1338. Rogato Giovamnni del q. Ventura.

"Niccolaus miles, civis Sen. de domo Ranionum, donat inter vivos
reverendo viro dompno Bernardo domni Mini de Talomeis de Senis ab.
mon. s. M. de monte Oliveti, omnia sua bona et obligationes quas recipere
debet a domno Nello milite olim domni Mini de Talomeis de Senis pro
usuris et ob usuraira pravitatem vel alio illicito modo, volens quod sit ad
salutem et remedium animarum illarum personarum, quibus tenetur
aliquid dare vel restituere pro lucro quocumque illicito modo ab eis habito
et acquisito.
- Actum in dicto mon.
- Iohannes olim Venture not.
14 BA 332 221 c 7
5 ottobre 1338 - Rogato Giovanni del q. Ventura.

16) Fr. Bernardo elegge per il medesimo effetto e nella riferita maniera Fr.
Gabriele di Luto.
2 maggio 1339. Rogato Giovanni del q. Ventura.

"Congregato gen. capitulo monachorum s. M. Montis Oliveti, de mandato
venerabilis patris et domni fr, Bernardi quondam b. m. domni Mini
Christofani de Talomeis de Senis ab. fratres constituerunt procuratorem fr.
Gabrielem Luti monacum dicti mon.
- Actum in ecclesia dicti mon.
-Iohannes quondam Venture not.
15 AV 329 218 c 28 ( 26)
2 maggio 1339 - Rogato Giovanni del q. Ventura

17) Franceschino Cantelli da Parma giudice collaterale del Podestà di Siena
sopra le controversie che passano tra Ser Nicola di Ser Vanni Procuratore
di Fr. Bernardo abate di Monte Oliveto e di Tora vedova di Branche
Accarigi, fide commissari di Nello del q. Mino Tolomei per una parte e tra
Ser Domenico di Ser Cecco Procuratore di Galletta e di Nicola dall'altra,
ordina che questi paghino la quarta parte della lite e delle spese, siccome il
detto Ser Niccola fa una tal istanza contro i medesimi, che sono stati
soccombenti nella querela del gravame aventi Niccola giudice collaterale
del Capitano del Comune di Siena e le ragioni dei primi sono in
quell'affare chiarissime.
7 settembre 1339. Rogato Benincasa del q. Mino.
cfr. documento nella cassetta B 12 dell'archivio M.O.M. al 1341 dicembre
13 al n.12).

cfr. a.M.O.M. al n. 1 e al n. 38. : 1337 agosto 19 :
Galletta di Niccolò da Siena attesta di dover versare...non oltre il prossimo mese di settembre.
"Franceschinus de Cantellis de Parma iudex collateralis nobilis et potentis
militis domni (....) de Tabula de Ferraria hon. potest. civit. Sen., in lite
vertente inter ser Nivolaum ser Vannis not. et proc. reverendi viri fr.
bernardi ab- mon. s. Marie de monte oliveto et domne Thore relicte domni
Branche de Acarigiis fidecommissariis testamenti domni Nelli condam
domni Mini de Talomeis et Gallettam et Niccholaum et Dominicum ser
Cicchi not.; qua petiis dictos Gallettam et Niccolaum qui succubuerunt
condemnari in quarta parte, in expensis; condemnat dictos Gallettam et
Niccholaum in quarta parte dicte litis et inexpensis legiptimis. Lata
condempnatio presentibus ser Bartholomeo Ciardini et ser Andrea Fucci,
ser Bartholomeo Ciechi, et ser Simone Nuti not.
Benincasa not. filius olim Mini de Senis, scriba et officialis comunis Sen."
16 AZ 331 220 c 9,1-2
7 settembre 1339 - Rogato Benincasa del q. Mino

18) Fr. Bernardo abate del monastero di Monte Oliveto col consenso di Fr.
Simone Ture da Siena e del rimanente Capitolo del detto monastero
elegge Fr: Alessio di Pucciarello d'Arezzo, Fr. Andrea di Cenno da
Gozzano, Fr. Bartolomeo di Nucchezzo Capponi da Fiorenza, Fr.
Venturino di Mastro Mino da Trequanda, Bartolino Capponi da Fiorenza e
Brunellino di Guittone parimente da Firenze per Procuratori in solidum
sopra le liti civili e criminali da agitarsi in qualunque luogo e davanti
qualunque persona, dandogli specialmente facoltà di vendere per il prezzo
di quattrocento fiorini d'oro a Giacomo del q. Vanni di Luppo Antinori, la
metà pro indiviso d'un podere con palazzo posto in S. Pietro di
Monticello, confinante con la strada, con Piero del detto Vanni, con Ser
Ranuccio di Francesco Saputi e col monastero di S. Pietro Minore,
dichiarando inoltre che se Giacomo non lo volesse più comprare, si venda
a Pietro ed altre persone.
30 ottobre1339. Rogato Tomagio del q. Oliverio da Monte Franchi.

"Convocato capitulo mon. s. M. de monte oliveto, de mandato venerabilis
1) patris domni Bernardi ab. eiusdem mon.;
2) fr. Simon Ture de Senis,
3) fr. Benoarius Mini de Florentia,
4) fr. Augustinus Ture de Senis,
5) fr. Thomas Minnari de Senis,
6) fr. Ventura Lapini de valle Marina,
7) fr. Bernardus Optolini de Florentia,
8) fr. Laurentius Andree de Senis,
10) fr. Pernarius Baccii de Florentia,
11) fr. Paulinus Pauli Vannis olim Lippi Antinorii de Florentia
12) fr. Iohannes ser Incepi de Florentia,
13) fr. Blasius Bindoari de Rubeis e Senis,
14) fr. Franciscus domni Pere de Florentia,
15) fr. Iohannes Petruçii de Senis,
16) fr. Zenobbius Locti de Aleis de Florentia,
17) fr. Iovannuççius Iungari (ser Petraculi?) de Florentia,
18) fr. Niccholaccius ser Chimenti de Aretio,
19) fr. Alessander Ardingii de Baris de Florentia,
20) fr.Bonaventura Magii de Aretio,
21) fr. Macteucius Ducii de Brolio,
22) fr. Macteus Landini de Prato,
23) fr. Cecchus Bencivennis de Eugubio
constituerunt procuratores ad omnia agenda
24) fr. Alexium Pucciarelli de Aretio,
25) fr. Andream Cennis de Corçano,
17 AS 327 216 c 8
30 ottobre 1339 - Rogato Tomagio del q. Oliviero da Monte Franchi.

19) Francesco del q. Nanni di Ser Uguccione da Trequanda, "volens mundum
spernere, relinquere et continentiam et chastitatem servare", cede tutti i
suoi beni e ragioni "nobili et honesto viro Domino Fratri Bernardo de
Tolomeis de Senis, venerabili et dignissimo Abbatri" del monastero di
Monte Oliveto, cioè un pezzo di terra posto nella curia di Trequanda nel
luogo detto Casale, che termina con Donna Millia e con la strada, un
altro....... e finalmente una casa con vari utensili nel castello di Trequanda,
confinante con Bonnerio del q. Lello e con gli eredi di Burgasso,
dichiarando nel tempo stesso Pietro di Mastro Braccino da Trequanda per
darne il possesso in suo procuratore, promettendo in oltre di osservare una
simile obbedienza ad esso Bernardo abate, e a tutti i suoi successori.
13 gennaio 1340.Rogato Francesco di Ser Giovanni Sozzi notaro senese.

"Franciscus olim Nannis ser Uguiccionis de Trequanda, comit. Sen.,
volens omnipotenti Deo Patri et gloriose virgini Marie eius matri in
omnibus complacere et servire et fetorem mundi et ipsum mundum
spernere et continentiam et castitatem servare, libera voluntate, offert se et
omnia sua bona, pro remedio peccatorum, pro anime sue et parentum
suoprum salute, Deo omnipotenti, beate Marie virgini et honesto viro
domno fr. bernardo de Tolomeis de Senis venerabili et dignissimo abbati
mon.s. M. de monte oliveto, ordinis s. Benedicti, promittens omnem
obedientiam et reverentiam et de cetero humiliter exibere et perpetuam
castitatem et honestatem tenere et servare et vivere secondum regulam
beati benedicti et monasterii et ordinis predicti s. M. de monte oliveto.
Actum in mon. supradicto, in claustro eiusdem mon. , coram fr. Iacobo
olim Ghezzi et Niccolo ser Vannis, testibus.
Franciscus filius ser Iohannis Soççi, not.
18 AF 316 205 c 18
13 gennaio 1340 - Rogato Francesco di Ser Giovanni Sozzi, notaio.

20) Nicola del q. Francesco Patrizi dona a Fr. Bartolomeo del q. Mastro Mino
Procuratore di Monte Oliveto e di Fr. Bernardo abate certe cose, una
oliviera ed un pezzo di terra descritte nel testamento di Ser Bonaventura
disteso da Francesco del q. Cola.
18 febbraio 1340. Rogato Francesco del Ser Guidone.
19 H 297 186 c 40
18 febbraio 1340 - Rogato Francesco del q. Ser Guidone

21) Michele di Tano da Fiorenza eletto da Fr. Bernardo abate di Monte
Oliveto in Procuratore per presentarsi alla Santa Sede in Avignone; ad
effetto di esibire colà sotto precetto di S. Ubbidienza certe scritture ed
appellazione interposta dal detto Fr. Bernardo e dal Monastero a Fr.
Innocenzio di Ser Domenico da Siena e a Fr. Simone di Ser Fedicio da
Firenze per motivo della controversia vertente tra Ghinizzone di
Niccoluccio d'Arezzo e Fr. Pietro priore della chiesa di S. Bernardo
d'Arezzo dell'Ordine di Monte Oliveto, protesta nella chiesa di S. Chiara
dello spedale nuovo di Pisa che essendo ivi giunto ha cercato una barca
per andare a quelle parti e che insomma è dispostissimo partire per la
prima occasione e che a lui non si deve imputare per negligenza il trovarsi
ancora in quel luogo.
21 febbraio 1341. Rogato Romano del q. Giacomo da Pisa.
cfr. anche documento della cassetta B 12 in A:M.O.M
n.9) 1340 febbraio 21 Pisa. E' errato l'anno?
20 AZ 331 220 c 11
21 febbraio 1341 - Rogato Romano del q. Giacomo da Pisa

22) Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei abate di Monte Oliveto col consenso di
Fr. Simone di Turi da Siena, di Fr. Francesco di Pietro Tolomei, di Fr.
Restauro da Siena, rettore e di altri del Capitolo Generale elegge in forma
amplissima Fr. Pietro di Donato de Peruzzi da Fiorenza in procuratore del
detto monastero di Monte Oliveto e suoi membri, sopra ogni questione e
lite civile e criminale, che possa aversi in qualunque luogo e avanti
qualunque persona.
4 maggio 1341. Rogato Francesco del q. Ser Giovanni Zorzi, cittadino
senese.
Cfr. a.M.O.M. n.. 11.
21 AV 329 218 c 31
4 maggio 1341 - Rogato Francesco del q. Ser Giovanni Zorzi

23) Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei abate del monastero di Monte Oliveto
col consenso di Fr. Patrizio del q. Francesco, di Fr. Simone Ture, di Fr.
Bernardo Ottolini e di altri del Capitolo del detto monastero elegge Fr.
Bartolomeo di Mastro Mino da Siena in procuratore sopra ogni lite che
con qualunque persona e davanti qualunque giudice potesse mai accadere.
2 novembre 1341. Rogato Giovanni del q. Ventura. da Siena.
22 AV 329 218 c 33
2 novembre 1341 - Rogato Giovanni del q. Ventura da Siena.

24) Bruno di Lazzaro da Bettolle a nome proprio e Benencasa di Vanni, come
procuratore ed a nome di Lasia del q. Lenano moglie di esso Bruno
"volentes mundum et mundana relinquere et Deo servire; ipsorum
strepitum et concupiscientiam desinere quia servire Deo nihil est aliud
quam regnare et in continentia et chastitate consistere", essendo con le
mani giunte e genuflessi nel coro avanti l'altare della chiesa di S. Maria di
Monte Oliveto, in presenza di tutto il Capitolo Generale distintamente
nominato, si offeriscono a Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei abate
degnissimo, in appoggiati, Commessi ed oblati del medesimo monastero
promettendo l'obbedienza secondo la regola di tali appoggiati,cedendogli
ancora sotto pena di cento fiorini, in caso di revocazione, uno spedale da
lui stesso e sua moglie fabricato ad onore della Beata Caterina vergine,
con sette letti, una casa ed una piazza nel borgo di Bettolle.
2 maggio 1342. Rogato Ambrogio di Ser Mino.
cfr. A.M.O.M. -24. Cassetta 21, mazzo 2, n° 8.
23 AF 316 205 c 24
2 maggio 1342 - Rogato Ambrogio di Ser Mino
cfr. A.M.O.M. -24. Cassetta 21, mazzo 2, n° 8.

25) In nomine Domini Amen.
Anno Domini millesimoCCCXLII, indictione X die XVII mensi julii.
Appareat omnibus evidenter quod Reverendus Pater Dominus Bernardus
filius quondam Domini Mini Cristophani de' Tolomeis de Senis,abbas
Monasterii, Capituli et Conventus Sanctae Mariae de Monte Oliveto,
comitatus Senarum et Aretinae diecesis faciens in perpetuum cum
parabola, consensu et mente et voluntate fratris Simonis Ture de Senis,
fratris Johannes Ser Dominici de Torvino, fratris Gregorii Vannis de
Senis, fratris Matteucci Duccii de Brolio, fratris Francisci Guiducci de
Treconzano, fratris Pavolini Pavoli de Florentia, fratris Bernardi Ottolini
de Florentia, fratris Laurentii Spigliati de Florentia, fratris Mathei Landini
de Prato, fratris Vannis de Corzano, fratris Cionnis Corde de Florentia,
fratris Johannis Daneri de Senis, fratris Johannis Ser Pavoli de Florentia,
fratris Francisci.....(manca nell'originale) de Trequanda, fratris Stephani
Guictonis de Florentia, fratris Francisci Petruni, fratris Petri de Senis,
fratris Laurentii Neri de Senis, fratris Jovannuzzi Inguini de Florentia,
fratris Marci....de Vulterris, fratris Restori pictoris de Senis, fratris
Jacobuccii Domine Bone de Florentia, fratris Venturini Mignorini de
Trequanda, fratris Basilii de Aretio \monachorum et fratrum suorum et
dicti monasterii et Conventus et capituli Beatae Sanctae Mariae de Monte
Oliveto predicto comparuerunt inde monaci et fratres monasterii, Capituli
et Conventus membrorum dicti loci, una cum reverendo Patre Domino
Bernardo Abbate predicti loci, monasterii, Capituli et monachorum dicti
loci, de sancta Maria de Monte Oliveto predicto, qui sunt duo partes et
ultra monachorum et fratrum dicti conventus, Capituli dicti loci,
convocati,coadunati et congregati in Ecclesia Sanctae Mariae de Monte
Oliveto predicto, ubi morantur et soliti sunt facere capitulum et
Conventum et congregationem et Consilia pro dicto Capitulo et Conventu
dicti loci, more solito, ad sonum campanae comnvocati, congregati pro
utilitate et commoditate dictorum capituli et Conventus et ipsorum fratrum
et Monachorum dicti loci, omnes simul concorditer et nemine discordante
simul ad invicem inter eos pro evidenti utilitate et commoditate dicti
Capituli et Conventus dicti loci, omnes simul ad invicem fecerunt,
constituerunt atque ordine eorum et cuiusqumque eorum et dicti Capituli,
Conventus dicti loci et Monasterii predicti omni vi, iure et modo quibus
melius fieri possunt, fratrem Bernardum Optolini de Florentia, fratrem et
monachum dicti monasterii et loci de ordine fratrum et Monachorum dicti
Monasterii presentium et recipientium dicti capituli et Conventus et
Monasterii et eorum et cujuslibet eorum et dicti Capituli et Conventus
dicti Monasterii, Sindicum et procuratorem, actorem factorem et certum
nuntium specialem et negotiorum gestorem ad disponendum pro eis
38 c f.401
17 luglio 1342 - Rogato Ser Johanne Martini-Roma

26) Bernardo e Giovanni del q. Piero di Chiusure per il prezzo di sette lire
monete di Siena, vendono a Fr. Andrea procuratore di Monte Oliveto un
pezzo di terra lavorativo e boschivo posto nella curia di Chiusure nel
luogo chiamato Gorgoni, che confina con i beni del detto Monastero e con
il Vallone di Segareno.
1 settmbre 1342. Rogato Bartolomeo del q. Cola.
24 I 298 187 c 4
1 settembre 1342 - Rogato Bartolomeo del q. Cola

27) Fr. Venturino del q. Mastro Mino di Trequanda procuratore di Monte
Oliveto dà in affitto per un anno a Goro di Giovanni di Bernardo da
Chiusure un pezzo di terra lavorativo posto nel distretto di Chiusure nella
contrada chiamata el Caggiuolo, che termina con la strada, con Nardo di
Rusticuccio, con gli eredi di Ghino di Rado e col Vallone; ed un altro
boschivo posto nell'istessa curia nella contrada chiamata la Selve, che
termina con li frati di Monte Oliveto, con Ghinuccio di Bartolo, con
Barbalino di Mico, con Guccio di Pace, e col Vallone, obbligandolo a
corrispondere per la Madonna d'Agosto 12 stara di frumento.
5 ottobrre 1342. Rogato Bartolomeo del q. Giacomino.
25 I 298 187 c 5
5 ottobre 1342 - Rogato Bartolomeo del q. Giacomino

28) Cecco del q. Guglielmo d'Avena nel contado di Siena, con Cecca sua
madre e Mina sua moglie per il prezzo di sei fiorini d'oro vende a Fr.
Bernardo del q. Ottolino procuratore e monaco di Monte Oliveto un pezzo
di terra con Olivi posto nella curia di Chiusure nel luogo detto Oliveto,
della contrada di Cristena, che confina col detto Monastero, con Menico di
Tino e colla strada.
11 gennaio 1343. Rogato Giovanni di Ventura.
37 I 298 187 c 8
11 gennaio 1343 - Rogato Giovanni del q. Ventura

29) Fr. Bernardo del q. Mino Tolomei, Abate, con il consenso di Fr. Patrizio,
di Fr. Simone Ture e di altri del Capitolo di Monte Oliveto elegge Fr.
Bernardo Ottolini da Firenze per procuratore ad effetto di vendere a Ser
Errigo del q. Feo o a qualche altro la metà pro indiviso di una casa posta
nel popolo di Santa Reparata, e di S. Lorenzo nella strada de Spadari e da
tre lati con lo stesso Ser Errigo.
23 aprile 1343. Rogato Giovanni del q. Ventura.
26 AS 327 216 c 10
23 aprile 1343 - Rogato Giovanni del q. Ventura

30) Francesco Rettore della chiesa di S. Angelo de Luco di Chiusure per
supplire alla perdita dell'Istrumento, con cui Lando suo predecessore,
aveva acconsentito che la religione in onore della B. Vergine approvata da
Guidone Vescovo d'Arezzo di buona memoria allora vivente in
comunione ed obbedienza con la S.Sede e graziata non meno da esso che
dalli di lui successori e da Giovanni Cardinal Legato di S. Teodoro fosse
fondata col Monastero nel luogo opportuno d'Acona della diocesi aretina
ad istanza di Fr. Venturino da Trequanda procuratore di Fr. Bernardo
abate e del Capitolo di Monte Oliveto, ad effetto che di ciò rimanga un
perpetuo monumento, anche a nome dei suoi successori acconsente e
solennemente rinnova quanto è stato operato dal detto Lando ora presente,
confessando che da questo non ne vien generato alla sua chiesa alcun
pregiudizio, ma grandissimo vantaggio, mentre l'Abate e i monaci
risplendono con vita lodevole "et morum honestate decora, de virtute
ambulantes in virtutem, concedente altissimo exercentes, semen eorum
cadens in terram bonam, iam non tantum sibi, sed et aliis Xtifidelibus,
fructum plurimum attulit salutarem et positi speculi aliorum exemplar
singularis vitae exibuerunt, et ducatum in via praestante omnibus
cupientibus ad bona progredi sempiterna".
1 settembre 1343. Rogato Donato del q. Pesso.
27 A 291 179 c 15
1 settembre 1343 - Rogato Donato del q. Pesso (=Becco)

31) Bice figlia del q. Savena vedova di Sozzino, col consenso di Sozzino suo
figlio vende per il prezzo di dugento cinquanta fiorini a Fr. Bernardo
Ottolini di Firenze Sindico di Monte Oliveto trenta sei stara di terreno a
semente posto nella curia di Bettolle nel luogo detto Campo Mattesi
confinante da due parti con la via.
11 dicembre 1343. Rogato Ser Nicola di Paltonerio.
28 AF 316 205 c 30
11 dicembre 1343 - Rogato Nicola del q. Paltonerio

32) Viviano da Siena Pievano della chiesa di S. Agata d'Asciano e vicario
generale di Boso Vescovo d'Arezzo, avendo a requisizione di Fr.
Venturino di Mastro Mino, sindico e procuratore di Fr. Bernardo Abate e
del Capitolo di S. Maria di Monte Oliveto esaminato lo stesso Fr. Patrizio
del q. Francesco Patrizi e Donato Mirancio canonico aretino ed avendo
ancora conosciuto dal Processo ora fatto a tenore degli articoli esibiti nel
giorno otto dal detto Procuratore, che sotto il 1319 a dì 26 marzo Guido
Vescovo d'Arezzo di buona memoria, allora in comunione della S. Madre
chiesa, dopo l'istituzione del prefato Collegiato Monastero da reggersi
dall'abate e monaci, aveva ordinato a D. Giovanni d'Arezzo, monaco del
monastero del Sasso dell'ordine di S. Benedetto, suo vicario di creare i
nuovi monaci di quel luogo, che cantava questi la messa nella chiesa detta
SS.ma Trinità fuori delle mura, dove era una copiosa moltitudine di fedeli
aveva dato, tre giorni dopo, con le solite benedizioni, la cocolla bianca e
l'abito monacale alli due suddetti e ad Ambrogio del q. Mino da Siena
come gli altri genuflesso, che aveva ricevuto la rinunzia di essi all'anno di
Probazione e la loro professione di castità, povertà, obbedienza e
perseveranza dandogli la regola di S. Benedetto, che tali nuovi religiosi
avevano sempre anche in pubblico portato l'abito dei professi, che come
tali erano stati reputati da ogn'uno, secondo è la pubblica voce; e che il
tutto appariva per Istrumento di Ser Guadagno e d'altri notari. Rinnova
con la presente dichiarazione detta verità delle suddette cose tutti quei tali
documenti, che si sono perduti, per la mancanza de quali, si teme, che
alcuni possano detrarre la buona fama, pace e quiete del Monastero e dei
monaci.
31maggio 1344. Rogato Agostino del q. Finuccio d'Arezzo
29 A 291 179 c 16
31 maggio 1344 - Rogato Agostino del q. Finoccio d’Arezzo.

33) Niccola del q. Bandino da Siena Potestà di Massa arbitro eletto assieme
col Venerabile Padre Fr. Bernardo Tolomei abate di Monte Oliveto, da
Matteo di Bindo Pignatta, e da Bindo suo figlio per una parte, e da Larina
del q. Pietro di Ciano futura moglie di Bindo dall'altra a causa delle
controversie insorte in materia della dote da pagarsi al detto Matteo di
Bindo, ripone tutta la sua abilità nel detto Fr. Bernardo, essendo esso
Nicola impedito da altri interessi spettanti al suo uffizio.
24 gennaio 1346. Rogato Giacomo del q. Ser Bondo.
30 BI 339 228 c 25
24 gennaio 1346 - Rogato Giacomo del q. Ser Bondo

34) Giovanna e Bartala figlie del q. Vannuccio di Ser Giovanni Ventura
notaro di Chiusure, Nicolò del detto Ser Vanni e Fessa del q. Goro di
Filippo, vedova del nominato Vannuccio, per il prezzo di cento lire
moneta di Siena, vendono a Fr. Simone di Ture, che ha pagato col proprio
denaro, con quello del monastero di Monte Oliveto e con quello di Fr.
Bernardo Abate, un pezzo di terra posta nella curia di Chiusure nel luogo
detto Cojallo, che confina con Antonio di Meo (Tolomei), col detto
Monastero, col Vallone e con la strada e costituiscono Puccio di Piero per
loro procuratore, ad effetto di darne giuridicamente il possesso.
5 febbraio 1347. Rogato Tomagio del q. Uliviero.
31 N 302 191 c 3,1
5 febbraio 1347 - Rogato Tomagio del q. Uliviero

35) Domenico del q. Martino Coletti di Caggiatro nella contrada di Chiusure
col consenso di vari suoi prossimi parenti e per il prezzo di quattro lire
moneta di Siena, vende a Fr. Jacomuccio Cennini procuratore di Fr.
Bernardo abate di Monte Oliveto un pezzo di terra posto nella curia di
Chiusure nel luogo di Caggiadro e precisamente nel sito detto egliamoni
che termina con Meo di Guccio, con gli eredi di Forestano e con la strada.
10 febbraio 1347. Rogato Tommaso del q. Uliverio.
32 I 298 187 c 13
10 febbraio 1347 - Rogato Tommaso del q. Uliviero

36) Memmo del q. Tino da Chiusure col consenso di Nuccio suo fratello
vende per il prezzo di trenta lire a Goro del q. Lando Ragnoni un pezzo di
terra posto nella medesima curia nel luogo detto Ovile, che termina con la
strada, con Parigio di Martino e con gli eredi di Giovanni di Bernardo,
costituisce Giovanni di Meo in suo procuratore ad effetto di dargliene
l'attual possesso e finalmente si obbliga, che Giovanna sua moglie fra
quindici giorni approvi il presente contratto.
4 dicembre 1347. Rogato Guglielmo del q. Mone
33 I 298 187 c 12
4 dicembre 1347 - Rogato Guglielmo del q. Mone

37) Fr. Lando del q. Feo Accorsi d'Arezzo frate e scriba, notaro e giudice
ordinario prima che si facesse religioso, incomincia un libro autentico,
cioè PROTOCOLLO, chiamato ancora "Libro delle Abbreviature", in cui
si contengono molti Istrumenti, quali tutti appartenenti alla religione
Olivetana, che trattano d'Atti Capitolari sia di tutta la Congregazione che
del Monastero di Monte Oliveto e di qualche altro a lui soggetto, di
compre, vendite, donazioni, testamenti, affitti, vestizioni, Professioni,
Elezioni, Procure, Istanze, appellazioni, apprendimento di possesso e di
rifiutazioni di eredità, monasteri, chiese, case ed altri Beni.
I suoi continuatori sono stati Fr. Giacomo del q. Paolo Naboni, chierico
della diocesi di Soana e Fr. Giovanni di Matteo da Orvieto, anch'essi frati
di Monte Oliveto e notari e giudici creati avanti d'entrare in religione.
Questo libro non eccede il 1398, è veramente aureo ed uno de più
rimarcabili che si ritrovi nel suddetto monastero. Vi è un indice di poco
merito, fatto da moderno soggetto di cui è stata veramente eccessiva la
libertà nell'avere scritto in quelle medesime carte, di sì spettabili antichi
autori.

Libro del Protocollo.
"Fr. Lando Fei di Arezzo "Questo libro non è legato perfettamente mentre ad esso va unito il famoso Protocollo di Fra Lando segnato provvisoriamente colle lettere G F. che è in mano dell'Ill.mo P.re Abate Stampa servendosene per la Santificazione del B. Bernardo. (Così è annotato nella copertina interna del volume BL.341.230.)
..Infatti da pag. 1 a pag. 67 ci sono notizie e documenti molto più tardivi dall'anno 1601..in poi... mentre cuciti subito dopo ci sono documenti preziosissimi del 1370, le cui pagine hanno una numerazione autonoma , originale e antica, ciò chiaramente manifesta l'approssimativa cucitura e messa insieme disordinata dei documenti.
- - - Così inizia lo scritto di Fr. Lando Fei di Arezzo: Pag 1 del 6 agosto 1370 "Quia memoria hominis labilis nostra defect.. obliviscitur quod suae memoriae quendam homo nascitur et moritur hominis vita caduca erat viator......
..presenti libro scribere, ponere poderia et bona immobilia omnino et mobilia....et pertinent ad monasterium S.ctae Mariae de Monte Oliveto in Acona ordinis Sancti Benedicti Aretinae dioecesis et comitatus Senarum et scriptum per fratrem Landum Fei de Aretio monachi monasterii Montis Oliveti prelibati scriba deputatus ad talia scriptori redactoris qui liber inceptus fuit sub anno dominicae nativitatis incarnationis millesimo trecentesimo septuagesimo MXXXLXX, INDICTIONE VIIII DIE SEXTO MENSIS AUGUSTI.

"In primis hestat dicto monasterio unum podium super quo fundatum et situm est monasterium praedictum in quo sunt vineae orti oliveta et aliae multae plures arbores...domesticae terra laborativa et quaedam ginestretum et nemora cum quercubus seu querciolis et aliis arboribus salvaticis et adest pro confinibus dicti mon. fossatum et pretenditur a parte superiori usque ad recisa quae est ante fornacem quae podium sic persignatum (?) ven. in Xto pater Frater Bernardus domini q. Mini de Tolomeis de Senis donavit dicto Mon. sicut patet manuscr. Ser Guadagni notarii Ser Bonavitae de Aretio sub anno MCCCXVIIII (ASS. A 291 179 c.1 26 marzo 1319) postquam donationem fratres dicti Monasterii vendiderunt medietatem dicti poderis cuncta nomine locto, sive oneri (sorori ?)peremptis factis Memmo del q. Tino da Chiusure col consenso di Nuccio suo fratello vende per il prezzo di trenta lire a Goro del q. Lando Ragnoni un pezzo di terra posto nella medesima curia nel luogo detto Ovile, che termina con la strada, con Parigio di Martino e con gli eredi di Giovanni di Bernardo, costituisce Giovanni di Meo in suo procuratore ad effetto di dargliene l'attual possesso e finalmente si obbliga, che Giovanna sua moglie fra quindici giorni approvi il presente contratto.
4 dicembre 1347. Rogato Guglielmo del q. Moneaciendis in constructione dicti monasterii et dictus loctus perempsit dominus Bonaventura Senarum.
Item donavit dictus fr. Bernardus dicto monasterio prout patet in dicto registro donationis infrasciptum...
- Donavit petiam terrae laborativae prout invenitur dicti....a duobus partibus...
- Donavit petia terrae...

1339 Una petia terrae.
1340
1340 ag.


Carta o pag. 2

- Carpineto
- Coiallo
1338 - Valdiprato

1339 Una petia terrae.
1339 Andrea de Tolomei de Chiusure vende al monastero e al convento nostro sito in M.O.

1340 - In Bettolle

1340 ag. - Carpineto
- Corallo

1341(o 7?) .- Caggiatro

1342 - Donazione di Bilia: Cristena, Cristena. Uliveto, Caggiatro Cristena Caggioli .
Acquisto da Forestano podere di Cristena.

1343 - Rogiti di Nicola Paltonerii
1343 - Terra:Paghetta
1344 Emit Fr. Pierus Donati de Flor.a
1344 - Fr. Jacobuccio
1345 - Santo a Ovile
1345 - Le Selve
1348 - Coiallo
1348 - Cristena
1348 - Tocchesorana (?).
1348 Domus posita in castro Asciani cum orticello retro dictum domum cum puteo
1370 agosto BL 341 6 230 11342 - Donazione di Bilia: Cristena, Cristena. Uliveto, Caggiatro Cristena Caggioli . Acquisto da Forestano podere di Cristena.
316 ottobre 1348 - Rogato Fr. Lando del q. Feo Accorsi

38) Fr. Antonio chiamato al secolo amiraglio, figlio del q. Pietro Amiragli
d'Arezzo volendo professare nella Religione di Monte Oliveto, postosi
nella medesima chiesa di Monte Oliveto in ginocchione col capo scoperto
in presenza di Fr. Franceschino di Guiduccio da Trecozzano abate "quia
ipse perpetuo intendebat, ad laudem et reverentiam omnipotentis Jesu
Xristi et gloriosae Virginis Mariae Matris eius et Beati Benedicti et Beati
Bernardi vitam monasticam observare et in dicto monasterio degere...
sponte, scienter et consulte obtulit et dedicavit se et propriam personam
omnipotenti Deo et gloriosae Virgini Mariae et Beatis Benedicto et
Bernardo et suis manibus clausis et iunctis se intra manus dicti venerabilis
abbatis" promettendo l'obbedienza secondo la regola e secondo le
costituzioni dello stesso monastero e dell'ordine e la castità, cedendo con
donazione inter vivos tutti i suoi beni mobili ed immobili, che ha nella
città d'Arezzo e nella curia della Villa dell'Olmo ed in qualunque luogo
con tutte le ragioni e pertinenze.
16 novembre 1348. Rogato Lando del q. Accorso d'Arezzo, Frate di
Monte Oliveto e prima notaio.
35 BL 341 230 c 15
16 novembre 1348 - Rogato Lando del q. Accorso d'Arezzo



ATTI NOTARILI E NOTAI DI MONTE OLIVETO MAGGIORE DAL 1319 AL 1348


N° Anno giorno mese pagina Nome del Notaio
__________________________________________

1) 1313 05 marzo
2) 1319 26 marzo A 1 Guadagno del q. Ser Giunta. (N° 2)
3) 1319 26 marzo A 2 Guadagno del q. Ser Giunta
4) 1319 26 marzo A 3 Il vescovo d'Arezzo commette a Don
5) 1320 2 aprile A 9,1 Guido d'Arezzo scrive a Gregorio Rettore
6) 1320 dopo aprile A 9,2 Galgano del q. Ventura (N° 1)
7) 1320 18 maggio H 39 Giovanni del q. Ventura.
8) 1320 6 aprile A 4
9) 1324 29 marzo A 5 Guido Vescovo concede conferma per la
10 ) 1324 17 maggio A 6 Il papa Giovanni XXI prende sotto la sua
11) 1325 21 aprile A 7 Giovanni XXI concede su richiesta...i
12) 1326 17 novembre A 8 Pietro d'Ajuto
13) 1326 21 novembre A 9 Giovanni diacono Cardinale di S.
14) 1332 3 settembre BA 1 Giovanni del q. Ventura.
15) 1333 3 giugno BA 2 Francesco del q. Ser Baldo.
16) 1333 25 luglio BA 3 Fr. Bernardo di S. Maria elegge Fr.
17) 1333 12 agosto BA 4 ...Lite con Pietro di Giacomo.
18) 1336 31 agosto BA 5 Diversi monaci con tutti i loro nomi offrono
19) 1336 4 settembre BA 6 Giovanni del q. Ventura.
20) 1336 4 settembre AV 21 Giovanni del q. Ventura.
21) 1336 4 settembre AV 22 Giovanni del q. Ventura da Siena.
22) 1338 30 giugno AV 24 Alamanno del q. Ghino Segna da
23) 1338 4 settembre AV 25 Lando del q. Feo Accorso d'Arezzo.
24) 1338 5 ottobre BA 7 Giovanni del q. Ventura.
25) 1338 14 febbraio S 4 Johannes notarius filius olim Venturae.
26) 1339 22 febbraio N 1 Franceschino del q. Bordino
27) 1339 2 maggio AV 27 Giovanni del q. Ventura
28) 1339 2 maggio AV 28 Giovanni del q. Ventura
29) 1339 7 settembre AZ 9,1 Benincasa del q. Mino
30) 1339 11 ottobre P 1 Franceschiuno del q. Bordino
31) 1339 15 ottobre A 13 Gregorio del q. Angelo
32) 1339 30 ottobre AS 8 Tomagio del q. Oliviero da Montrefranchi
33) 1339 25 ottobre P 2 Franceschino del q. Bordino
34) 1339 25 ottobre BB 2 Benencasa del q. Mino da Siena
35) 1340 13 gennaio AF 18 Francesco di Ser Giovanni sozzi
36) 1340 16 gennaio AV 29 Bartolomeo del q. Jacobino da Siena
37) 1340 18 febbraio H 40 Francesco del q. Ser Guidone
38) 1340 24 aprile N 2 Franceschino del q. Bordino
39) 1340 15 novembre H 41 Bartolomeo del q. Lapo da Siena
40) 1340 22 novembre AH 9,1 Niccola del q. Paltonerio
41) 1340 28 novembre AH 9,2 Niccola del q. Paltonerio
42) 1340 27 dicembre AH 9,3 Niccola del q. Paltonerio
43) 1340 27 dicembre AH 9,4 Niccola del q. Paltonerio
44) 1340 21 maggio N 2 Franceschino del q. Bordino
45) 1340 18 aprile S 5 Franciscus notarius filius olim Bordini de
46) 1341 21 febbraio AZ 11 Romano del q. Giacomo da Pisa
47) 1341 4 maggio AV 31 Francesco del q. Ser Zorzi
48) 1341 11 maggio AH 12
49) 1341 9 settembre I 3 Giovanni del q. Ventura
50) 1341 2 novembre AV 33 Giovanni del q. Ventura da Siena
51) 1341 25 giugno AH 14
52) 1341 2 Agosto S 6 Cione notar. filius olim Cioni
53) 1342 18 febbraio A 14 Matteo di Meuccio
54) 1342 2 maggio AF 24 Ambrogio di Ser Mino
55) 1342 17 maggio AF 25 Rainaldo di Gerio da Torrita
56) 1342 30 maggio AF 26 Giovanni del q. Aldobrandino
57) 1342 1 settembre I 4 Bartolomeo del q. Cola
58) 1342 5 ottobre I 5 Bartolomeo del q. Giacomino
59) 1342 17 ottobre I 6 Bartolomeo del q. Giacomino
60) 1342 17 luglio f.401 Ser Johanne Martini-Roma
61) 1343 8 aprile AF 27 Giovanni del q. Ventura
62) 1343 23 aprile AS 10 Giovanni del q. Ventura
63) 1343 26 giugno I 10 Nicola del q. Paltonerio
64) 1343 17 luglio AF 29 Rinaldo di Gerio di Torrita
65) 1343 12 agosto I 2 Giovanni di Ventura
66) 1343 1 settembre A 15 Donato del q. Pesso
67) 1343 15 settembre BI 21 Tomagio del q. Uliverio
68) 1343 11 dicembre AF 30 Nicola del q. Paltonerio
69) 1343 8 febbraio S 7 Iohannes notarius filius olim Venturae
70) 1343 11 gennaio I 8 Giovanni del q. Ventura
71) 1344 15 maggio Giovanni del q. Ser Ildobrandino
72) 1344 31 maggio A 16 Agostino del q. Finuccio d'Arezzo
73) 1344 14 luglio AF 32 Fuccio del q. Chino
74) 1344 14 luglio AF 32 Fuccio del q. Chino
75) 1345 21 giugno AH 28 Pietro di Ser Truffa
76) 1345 05 novembre Z 27,2 Donato del q. Beco d'Asciano
77) 1345 20 Febbraio
78) 1345 20 Febbraio
79) 1345 14 Luglio 1 Fra Ristoro Balducci eletto in vice di
80) 1345 27 Luglio
81) 1345 05 Agosto
82) 1345 10 Settembre
83) 1346 24 gennaio BI 25 Giacomo del q. Ser Bondo
84) 1346 29 Aprile E 1 Scarlatto di Guardo di S.Miniato
85) 1346 27 settembre BI 27 Fra Stefano del q. Ser Coppie da Prato
86) 1346 06 novembre Z 27,4 Donato del q. Beco d'Asciano
87) 1346 22 novembre AF 33 Agostino del q. Finuccio d'Arezzo
88) 1346 01 Gennaio Emptio
89) 1346 08 Gennaio Executio
90) 1346 21 Gennaio Emptio
91) 1346 17 Gennaio Locatio
92) 1346 21 Febbraio
93) 1346 22 Marzo 5 r Emptio
94) 1346 26 Marzo 5 r
95) 1346 22 Aprile 06 Testamento
96) 1346 04 Maggio 07 Sindac. Cap. General-5 pag
97) 1346 04 Maggio 10 Elenco Monaci
98) 1346 04 Maggio 11 v Renuntiatio
99) 1346 04 Maggio 14
100) 1346 08 Maggio 16 Locatio Trequanda
101) 1346 27 Maggio 17 Testamento Johannis filii Doti
102) 1346 03 Settembre
103) 1346 08 Settembre 18 Testamento..de Crestena
104) 1346 27 Settembre Stefanuccio Doti
105) 1346 02 Novembre
106) 1346 Emptio monasterii...de Ovile
107) 1346 07 Dicembre 25v Emptio dalla terra di Bettolle
108) 1346 27 Dicembre 25v. Emptio
109) 1346 31 Dicembre 23
110) 1347 5 febbraio N 3,1 Tomagio del q. Uliviero
111) 1347 5 febbraio N 3,2 Tomagio del q. Uliviero
112) 1347 10 febbraio I 13 Tommaso del q. Uliviero
113) 1347 13 maggio
114) 1347 4 dicembre I 12 Guglielmo del q. Mone
115) 1347 9 dicembre AH 19 Ventura del q. Ranuccio di Siena
116) 1348 16 ottobre BL part Lando del q. Accorso d'Arezzo, frate
117) 1348 16 ottobre BL ... Fr. Lando del q. Feo Accorsi d'Arezzo
118) 1348 19 novembre BB 3 Pagano di Ser Vanni di Francesco
119) 1348 16 novembre BL 15 Lando del q. Accorso d'Arezzo
120) 1348 P 4 Ciolo di Ghinuccio -Testatario


NOTAI SENESI ROGATORI PER SAN BENEDETTO A PORTA TUFI

La serie degli atti notarili in carta pecora che si trovano nell’archivio di Monte Oliveto denominato DIPMOM B (diplomatico dell’archivio generale di Monte Oliveto, serie B)
Sono documenti che provengono anticamente dal monastero di San Benedetto di Siena a Porta Tufi, e che si trovano citati e in transunto trascritti nel volume manoscritto da Don Ippolito Piccolomini nel 1774 per il monastero di San Benedetto e ai quali si fa riferimento anche nelle descrizioni in ordine alfabetico UU nello stesso .

Ecco la descrizione dei documenti:

1338 Eredità di Ser Sozzo per Fra Girolamo B 5 UU a fo 42 fac 2
Pervenne al Monastero di San Benedetto l'eredità di Ser Sozzo mediante la persona di Fra Girolamo monaco, avendo il monastero suddetto preso il possesso di un pezzo di terra, vigna e bosco con Casa, Capanna e cisterna in Corte di Cerbaia detto Rasa, confinante da due parti la via e da altra Mignanello d'Andrea Mignanelli, sotto rogito di Ser Giovanni del già Ser Ranuccio di Ventura, come al Contratto sciolto in Cartapecora segnato B.5 ed al Libro segnato UU. a fo. 42 fac. 2.
La sopraddetta possessione non si possiede dal Monastero nè se ne trova la vendita.
Ser Giovanni del già Ser Ranucci di Ventura.



1339/8/ 7 Donazione di grano: 125 moggia B 6 - UU f. 43
Nell'anno 1338 Misser Niccolò del già Giotto de Ragnoni donò al Monastero di San Benedetto moggia centoventicinque di grano cedendo tutte le ragioni delle medesime, che gli potevano competere e gli si competevano contro Galletta suo figliolo emancipato e che detto suo figlio lo doveva dargli per tutto il tempo di sua vita dei frutti e rendite di certe possessioni poste nella Corte del Sasso di Maremma, sotto rogito di Guido del già Vanni detto il Porco, come appare al Contratto sciolto in carta pecora segnato B. 6 ed al Libro segnato UU a fo. 43.

"Ego dominus Niccolaus miles filius quondam Grotti de Ragnonibus de Senis per me ipso et omni jure via et in quibus possum tantum donationis inter vivos. Ita per aliqua ingratitudine vel offensam vel alio modo renueri non possit plene libere et simpliciter do et dono vobis fratri Bareta Comes Mini de ordine fratrum Sancte Marie de Monte Oliveto prope senas recte et stipulanti pro domino Abbate monasterio Capitulo conventu et fratribus Sancte Marie de Monte Oliveto et eorum fraturm vice et nomine nominum infrascriptorum et ex eorum et totum do cedo et concedo vobis... dictum est et in dictum dominum abbatem Monasterii Capituli Conventus et fratrum per ..omnia et singula jura et actiones et petitiones et pignora obbligationes reales et principales...directas tacitas ex expressas sine mixtas et omnes alias que et quas...
..mediorum frumenti boni puri et necti ad rectum starum comitatus Sen. sine malitia de summa et quantitate eorum usum fructuum reditum sen. proventum quod dictus Galletta in dare et tradere tenetur debet et promisit toto tempore vite sue per usum fructum et reditum..et possessiones posite in castro Sassi Umbronis comitat Sen. et dicte curie. Pérout de pactis latius dicitur...
..Preterea ego notarius infrascriptus percepi nomine Ture et...sta. sen. dicto domino Niccolao donationis prope...predicta omnia et singula confiteor per hoc instrumentum et omnia singula observar. de ipso abbati fratribus Monasterio Capitulo et Conventu Sen. is per singula vel singuli consensuit et promisuit in...
Actum in claustro sancti Benedicti Sene de Monte oliveto posito extra portam de Tufis prope Senas coram fratre Ristoro Balducci, fratre Bencivenne, Johannis de dicto ordine, Magistro Lando Magistri Cennis et Salvi Accorsini tantum presentibus et rogatis.
Ego Guido not. filius quondam Vannis vocatus Porci predictis omnibus interrogatus et ea rogatus...
Guido del già Vanni detto il Porco.


1319 - Ser Guadagno notaro. Donazione del podere di Acona
1319 - Ser Guadagno notaro. Donazione del Podere di Melanino.
1338 - Ser Giovanni del già Ser Ranucci di Ventura B 5 - UU f. 42 fac.2
1338 - Guido del già Vanni detto il Porco. B 6 - UU f. 43




ATTI NOTARILI DEL MONASTERO DI SANT’ANDREA DI VOLTERRA (1342 – 1348)

17/11/1342 Spinello del fu ser Nero; Antonio del fu ser Nero 47279
Actum: nel dormitorio della chiesa di S. Andrea
Matteo di Mannino dona i suoi beni nel castello della"Nera"
13/12/1342 Leonardo del fu Sigherino da Volterra 47406
Actum: nella casa e luogo dei frati di S. Andrea, in Volterra
23/06/1344 Giovanni del fu Marcuccio; Iacopo del fu Marcuccio da Volterra 48432
Actum: nella chiesa di S. Andrea, presso Volterra
03/05/1347 Luca di Gianni da Volterra; Ranieri del fu Balduccio 50251
Actum: nella casa di Vanni del fu Neri, in Volterra
Da altra fonte Momdip: Il 4 maggio 1347 era priore di S. Andrea: Fra Tommaso Minucci Berrisi
26/05/1348 Giovanni del fu Marcuccio da Volterra 51073
Actum: nella chiesa di S. Andrea, presso Volterra.
Da altra fonte: Chita vedova di ser Buonaccorso figlia ddel fu Bindo lascia..
26/05/1348 Giovanni del fu Marcuccio da Volterra 51072
Actum: nella chiesa di S. Andrea presso Volterra

sabato 26 giugno 2010

MONASTERO OLIVETANO SEDE DI PROVINCIA SAN CRISTOFORO DI LODI


I fratelli Sommaria Niccolò e Angelo, cardinale, nel 1401 chiamarono i monaci Olivetani aVillanova Sillaro. Nel 1424 iniziò la costruzione delle chiesa e monastero e nel 1427 il Cardinale fece la cessione totale dei suoi beni ai monaci Olivetani, nella persona di Fra Francesco da Piacenza, con l’obbligo di portare a compimento la costruzione del complesso.

Ai monaci Olivetani era stato donato anche il castello con la villa e le terre adiacenti “..et domum magnum, seu palatium situm prope sanctum Martinum” cioè in Lodi via San Francesco ove era la chiesa di S. Martino, perché vi potessero risiedere in tempo di guerra.

Nei lasciti del Sommaria erano comprese vigne, prati, pascoli, i diritti sulle acque del Sillaro, fino allo sbocco in Lambro, le rogge derivate e i diritti di pesca.

Con Breve apostolico di Martino V nel 1426 concesse anche i beni legati al beneficio ecclesiastico pertinenti alla Commenda dell’Ospedale di San Biagio, sito nel borgo di Porta Cremonese di Lodi e furono questi beni che in seguito poterono finanziare la fabbrica di San Cristoforo.

Nel 1468 gli Olivetani riuscirono a sottrarsi alla giurisdizione dei nuovi feudatari della zona, i Rho e ne acquistarono il feudo di Villanova, con il consenso del duca di Milano.

Gli Olivetani portarono a termine i lavori della edificazione della chiesa nella prima metà del quattrocento e del monastero dal 1473 al 1474 per opera e disegni dei fratelli Ambrogio e Giovanni Fugazza; la fabbrica conventuale fu proseguita dal 1493 al 1500 dai nipoti Ambrogio e Francesco Fugazza.

Con grande solennità nel 1496 venne consacrata la chiesa di Villanova dal Vescovo di Lodi Carlo Pallavicino.

Il notevole prestigio, la consistenza del patrimonio, il collegamento stretto con altri insediamenti limitrofi diedero prestigio ai monaci olivetani in tutto il territorio lodigense, con la presenza e la guida ricorrente di un grande abate Don Domenico Airoldi, che in quattro periodi, dopo essere stato alla guida per quattro volte come Abate Generale si ritirava coma abate a Villanova Sillaro.

Ma agli albori del nuovo secolo le incursioni di armate straniere misero ripetutamente alla prova il monastero di Villanova, con battaglie e saccheggi, costringendo la comunità monastica ad un temporaneo abbandono per riparare nel monastero di San Sepolcro di Piacenza nel tentativo di creare una sede più sicura per i monaci vicino alla città.

Ecco che nel 1517 il priore Fra Filippo Villani decise di far costruire in Lodi nei borghi di Porta Cremonese la chiesa dell’Annunciata dove per la posa della prima pietra fu chiamato Francesco Ladina lodigiano e vescovo di Laodicea e canonico della Cattedrale di Lodi. Già nel 1524 fu nominato il primo priore dell’Annunciata Fra Marco da Cremona, vi risiedevano sei monaci e il loro mantenimento era assicurato dal monastero di Villanova.

Ben presto però fu tutto dato alle fiamme per l’infuriare di combattimenti e di guerre che durarono fino alla pace del 1559 tra Spagna, Francia e Impero.

I monaci di Villanova nel 1553 l’11 febbraio dopo aver individuato l’ubicazione adatta nel borgo detto di San Biagio a porta Cremonese vicino d’altronde all’attiguo monastero, acquistarono uno spazio in città, e ciò fu provvidenziale perché nel 1554 il conte Giovanni Francesco governatore di Lodi facendo distruggere i borghi extramurali fece distruggere anche il monastero dell’Annunciata.

SAN CRISTOFORO DI LODI

Fu Don Ambrogio Carcano milanese, abate di Villanova, una volta nominato abate di Santa Maria Nova in Roma che ebbe modo di accordarsi con il Commendatario del monastero umiliato di San Cristoforo di Lodi, il conte Roberto Malatesta per ottenerne l’unione all’Ordine Olivetano.

Nel 1552 il 5 dicembre il Papa Giulio III con una bolla unì il monastero di San Cristoforo degli Umiliati all’Ordine Olivetano. In quel momento il complesso era abitato da due soli religiosi umiliati, fu facile il passaggio, ma il fabbricato era in uno stato rovinoso.

E’ commovente la cronaca della presa del monastero di San Cristoforo.

Nel 1553 Don Refrigerio da Lodi abate di Villanova e lo stesso padre Vincenzo Sabbia cellerario, insieme ai monaci dell’Annunziata si recarono a San Cristoforo con solenne processione. Don Angelo Maia di Lodi cantò la messa invocando lo Spirito Santa. Si stabilirono nel monastero otto monaci e due conversi, ricevendo così con atto notarile del notaio Ludovico Bracco il possesso del luogo tramite un agente del conte Malatesta; mentre il passaggio ufficiale e definitivo fu concluso con l’atto del 26 marzo 1561 rogato da Giovanni Antonio Confanendus.

Ma era sempre il monastero di Villanova che adempiva a tutti gli obblighi e ai doveri di elemosina e di pane per i poveri. Infatti le possibilità economiche di Villanova in quegli anni erano discrete perché varie cascine furono acquistate dal monastero: sia in località Campagna nei pressi di San Colombano al Lambro, prima di pertinenza dei Canonici del Duomo di Lodi. Ci fu poi la vendita della proprietà della Madonna del Piastrello presso Milano ai confratelli del monastero di San Vittore che accrebbe le disponibilità economica.

Il 20 agosto 1570 Don Protasio Cantù, abate generale sancisce l’indipendenza economica del monastero di San Cristoforo e gli viene riconosciuta la proprietà e la gestione di un mulino, delle possessioni di Paterno e Cadilana con oratorio, con tutti i loro affitti e livelli. Un documento evidenzia però il disagio economico dell’insediamento che nel tempo aveva provocato un indebitamento in continuo accrescimento.

A Villanova restava il pagamento della pensione pattuita a Roberto Malatesta in qualità di Commendatario dell’ex canonica degli Umiliati.

LA CHIESA DI SAN CRISTOFORO

La prima pietra della chiesa fu posta il 24 febbraio 1565, sotto la giurisdizione dell’abate Gaspare Brenna alla presenza del Vescovo di Bobbio Francesco Castiglione. Fu tenuta una orazione solenne da Don Giovanni Battista da Milano in onore della Congregazione e del monastero, seguita poi da un componimento fra imponenza e leggerezza. di Giacomo Gabiano, autore della Laudiate poema in esametri latini.

I Lavori per la costruzione della chiesa, su progetto dell’ingegnere milanese Pellegrini Ribaldi si possono considerare chiusi il 27 aprile 1580 con la consacrazione del tempio, alla presenza dell’abate di Villanova Don Ambrogio Micheli, e di circa settanta monaci olivetani di diversi monasteri, che furono ammirati in una lunga processione e lungo le vie della città, allo scoppio di quaranta e più mortaretti in segno di festa.

Con il 5 giugno 1587, inaugurata la chiesa, si mise la prima pietra per la costruzione del monastero, il 28 giugno incominciarono i lavori sotto la direzione di Francesco Specie e Bino Piantanida da Fermo.

Se pure esisteva una distinzione e autonomia di San Cristoforo da Villanova fin dal 1570, furono le rendite della Cascina Santa Maria in Villanova che furono messe a disposizione dell’Ingegnere Piantanida responsabile dei lavori da eseguirsi a San Cristoforo con un contratto dei lavori da eseguirsi in quattordici anni.

I lavori furono stimati in data 11 aprile 1595 da Camillo della Polla detto Rabbino, architetto pubblico della città di Lodi, mentre il disegno della chiesa e del monastero fu del Pellegrini Ribaldi nato nel 1527 a Puria Valsola, per una spesa concordata in ragione di lire 84.587 e 14 soldi, coperta appunto con l’affitto di 6000 lire annue provenienti dalla possessione Santa Maria, proprietà del monastero di Villanova.

La bella Lanterna costò lire 1347 e soldi 1893.

Il campanile con quattro campane costò lire 3700.

Alcune colonne per il chiostro di marmo serizzo provenivano dalla costruzione dell’Annunziata ormai demolita, e preziosamente riutilizzate.

L’impostazione della chiesa fu molto simile a quella di San Vittore al corpo di Milano, chiesa anch’essa degli Olivetani, ispirate alle basiliche romane di Costantino e Massenzio, secondo quella prassi architettonica tipica del rinascimento inaugurata da Leon Battista Alberti, in una ben calcolata combinazione tra verticalità e orizzontalità, fra imponenza e leggerezza.

Nel 1608 abbiamo ancora altre spese per la costruzione della Chiesa.

La facciata rimase incompiuta in laterizio che contrasta certo con la chiaritò maestosa dell’interno.

Nella chiesa esistevano ai lati delle cappelle diverse pitture come

- una Madonna in gloria con san Cristoforo, e santa Maddalena e angeli del 1684

- un san Cristoforo mentre attera un drago del 1659.Queste due pale era presenti fino al 1797, poi passate alla Pinacoteca Brera ed ora la prima a Bruzzano (S. Maria Assunta), la seconda nella chiesa di S. Bartolomeo a Ossona (Mi).

Questi lavori lungo gli anni furono possibili perché San Cristoforo aveva ricevuto numerosi incrementi patrimoniali, con lasciti e legati testamentari, e sappiamo che nel 1619 il monastero aveva ben 12 monaci.

Anche nel 1695 il poeta Francesco De Lemene lascia denaro liquido per l’acquisto della possessione Regana.

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IL CORO LIGNEO DI FRA GIOVANNI DA VERONA

Il coro intarsiato da Fra Giovanni da Verona, eseguito per la chiesa dell’Annunziata, progettato con 35 tarsie, commissionate dal priore di Villanova Fra Filippo Villani, ma ne furono realizzate solo 23, morendo l’artista il 10 febbraio 1525. Di queste 23 molte andarono perdute in un incendio nel periodo tra la soppressione dell’Annunziata e il trasferimento dei monaci a San Cristoforo, quando rimasero in deposito presso le monache di santa Chiara nuova e nella chiesa di San Cristoforo ne giunsero solo undici rimaste nel coro fino a quando la chiesa venne sconsacrata. Nel 1960 il Vescovo Tarcisio Vincenzo Benedetti li fece portare e collocare nella Cattedrale appena restituita alla sua originaria veste romanica.

SOPPRESSIONE DEL MONASTERO

I cambiamenti politici seguiti ai conflitti militari portarono san Cristoforo ad essere adibito prima ad ospedale militare fin dal 9 febbraio 1701 e dal 1736 con gli Asburgo e l’alternarsi della presenza degli Spagnoli. Furono celebrati grandissimi festeggiamenti per celebrare la festa in onore dell’Immacolata Concezione proprio nella chiesa di san Cristoforo. Sempre nella chiesa di San Cristoforo nel 1792 si istituì la Scuola della Dottrina cristiana per i maschi.

Ma a livello civile-politico il concetto giurisdizionalista che spetti allo Stato legiferare e disporre degli aspetti non strettamente spirituali della vita ecclesiastica, per cui i beni e le rendite dei monasteri confluiscono in un fondo di religione amministrato dallo stato a favore del clero impegnato nella cura d’anime e della pubblica istruzione è chiamata in termini più chiari soppressione, abuso di potere civile fino al vero sequestro ed esproprio dei beni.

Il monastero di San Cristoforo di Lodi sopravvisse fino al 1798, quando fu definitivamente travolto dalle soppressioni napoleoniche.

Già nel 1796 il Commissario di Guerra francese Lavergne aveva impartito l’ordine di sgombero del monastero affinché venisse adibito a ospedale militare.

Nell’archivio storico dl comune di Lodi si conserva l’atto con cui il 21 agosto 1797 si decideva il trasferimento provvisorio degli arredi di San Cristoforo alla chiesa di Villanova Sillaro (ASC.Lo, napoleonico b. 171 fasc.8).

I l 23 giugno 1798 Giuseppe Crociolani, notaio collegiato rogò l’istrumento di Soppressione e abolizione del monastero degli Olivetani di San Cristoforo nel comune di Lodi (carta 1821).

L’atto venne letto nell’abitazione del Cellerario degli Olivetani Seghizzi, che si era trasferito ormai da un anno nel convento di sant’Agnese, nella parrocchia di San Lorenzo.

Per la determinazione del patrimonio furono redatti gli inventari delle sostanze attive e passive del monastero cessato, degli arredi del monastero, della chiesa e della sacrestia.

Il parroco della chiesa di San Rocco in Borgo D’Ada Giuseppe Schenini e il cappellano sussidiario Alessandro Brunetti facevano istanza perché venisse assegnato in beneficio alla suddetta chiesa l’altare di marmo del Crocifisso della soppressa chiesa di San Cristoforo (ASC.Lo, napoleonico b.112 fasc. 2146).

La riapertura della chiesa di San Cristoforo.

Dopo un secolo e mezzo dalla sua sconsacrazione, di completo abbandono, e di uso non confacente al luogo sacro, l’8 dicembre 1956 la chiesa di San Cristoforo interamente restaurata fu riaperta al culto con una solenne benedizione. La presenza dei Frati minori cui fu affidata la chiesa fino agli inizi degli anni ottanta, fu veramente esemplare perché fu loro riconosciuto il merito di aver assolto con zelo encomiabile e abilità nell’ardua fatica del restauro della chiesa stessa.

STORIA DI UN RECUPERO . SEDE DELLA PROVINCIA DI LODI.

Già nel 1982 la Soprintendenza con uno stanziamento procede alla sistemazione del tetto del monastero.

Nel 1995 inizia la ricerca di un edificio storico ampio e prestigioso fino all’individuazione del monastero di San Cristoforo per una sede idonea e definitiva

della Provincia di Lodi, favorita dall’immediata disponibilità dei locali del complesso storico monumentale.

Riacquistati dal Demanio i locali nel 1998 la Provincia di Lodi nel 1999 rendeva pubblici i contenuti del grande progetto di recupero nel più scrupoloso rispetto delle caratteristiche originali dell’ex monastero, ma con l’intenzione di realizzare anche il recupero urbanistico di una intera zona di Via Fanfulla, che meritava miglior attenzione.

L’iter è stato più rapido di qualunque più rosea previsione e la realizzazione nel principio della conservazione delle linee storiche originarie di tutela del complesso

unitamente a quello altrettanto importante di garantire la perfetta funzionalità.

Ecco che già conclusi gli appalti nell’ottobre 1999, i lavori iniziarono dal marzo 2003, e se pur con qualche ostacolo,per cambiamenti necessari in corso d’opera si è giunti alla conclusione dei lavori con una spesa di sei milioni oltre il costo di tre milioni per l’acquisto del complesso comprendente anche San Domenico.

E’ un meraviglioso complesso costituito da un piano interrato, un piano terra, un primo e secondo piano unitamente a dei piani ammezzati per una superficie di oltre 4.000 metri quadri.

Il plauso e la contentezza dei monaci olivetani per questo coraggioso ricupero del loro monastero, reso celebre e di grande evidenza storico-mediatica resta la frase stampata sul progetto di recupero di San Cristoforo che diceva:

“L’alba del nuovo millennio riconsegna questo complesso monumentale ai lodigiani e alle istituzioni che li rappresentano, riaprendo un angolo storico della città, rimasto chiuso, senza storia per troppo tempo.

Rinasce la storia dei monaci Olivetani. Grazie!

mercoledì 28 aprile 2010

La Congregazione Benedettina Olivetana tra ragioni di Chiesa e ragioni di Stato Gli Olivetani in toscana XVI – XIX sec.)

L’ordinamento benedettino olivetano e le sue trasformazioni nell’età moderna.

Le modificazioni costituzionali.

L’ordinamento monastico olivetano era impostato su tre fattori determinanti:
1) la temporaneità delle cariche,
2) la centralizzazione del governo,
3) la suddivisione territoriale.
La forte struttura di governo centrale era già in grado di esercitare un controllo periodico sui singoli cenobi e d’altra parte sotto il profilo giuridico i diversi monasteri accrescevano i legami e gli scambi tra loro, rendendo praticabile un’effettiva mobilità dei monaci.
Era così allontanato dalle abbazie olivetane il pericolo del regime commendatario.
Nel modello congregazionale la figura abbaziale perse quel tratto sacrale-carismatico e di fonte d’autorità per il monastero, che le aveva attribuito il Medioevo.
Con l’introduzione del metodo democratico per il quale era il corpo dei monaci che partecipava al governo mediante il capitolo e la carica dell’abate fu trasformata in un ufficio con poteri più ampi ma della stessa natura degli altri, con funzioni delegategli ad tempus dal capitolo generale e sostanzialmente ristrette alla tutela della disciplina interna e alla vigilanza amministrativa.
Circa la durata, l’ordinamento olivetano fin dai primordi della sua costituzione aveva adottato il criterio dell’avvicendamento annuale della carica abbaziale, ordinamento certamente imprestato anche dai sistemi giuridici degli enti pubblici senesi e ordinato dall’autorità ecclesiastica come la Bolla “Summi magistri” di Benedetto XII del 1336, circa l’imposizione di celebrare almeno di triennio in triennio il Capitolo Generale.
Questo era stato sempre in vigore antecedentemente presso gli Olivetani, e gli abati generali e gli abati locali si alternarono in seguito prima ogni quattro anni, dal 1501 ogni due, dal 1572 di nuovo ogni quattro e dal 1587 fu stabilito un avvicendamento triennale.
Anche la riforma di Santa Giustina non fece che seguire con evidenza la struttura dell’organizzazione della Congregazione Olivetana.
Infatti la Costituzione di Eugenio IV “Etsi ex sollicitudinibus debito..” dell’ottobre-novembre 1432 fissava la struttura definitiva in questo modo:
1) i monaci formavano un solo corpo, che al di là della diversità dei luoghi di professione, era rappresentato nelle sue componenti dal capitolo generale e guidato da un definitorio cui spettava tanto il supremo potere legislativo e amministrativo quanto la pienezza delle competenze sugli aspetti liturgici, religiosi,disciplinari;
2) tutti i superiori erano nominati dal capitolo generale e rimanevano in carica fino alla sua rinnovazione, mentre l’esercizio dell’abbaziato e del priorato diveniva annuale.
Anche a Santa Giustina ogni monastero era generato dall’archicenobio, dipendeva permanentemente da esso, ne riceveva le direttive e la nomina dei superiori, ma la gran differenza consisteva che i monasteri erano tra di loro ‘confederati’, mentre i monasteri olivetani formavano un’unicum corpus’ come delle membra unite al capo, e a questo soggetti, cioè erano tra loro ‘congregati’.

Evoluzione costituzionale ?

Quali furono gli interventi della curia romana sull’organizzazione monastica olivetana?

Qual è l’interpretazione storico-genetica dei fondamenti giuridici e degli sviluppi organizzativi della famiglia benedettina?
Che la plurisecolare organizzazione benedettina fosse basata su tre pilastri fondamentali:
1) l’autonomia giurisdizionale e amministrativa di ciascun abbazia e il conseguente diritto delle rispettive comunità di eleggere il proprio abate,
2) la durata vitalizia e l’autorità assoluta della carica abbaziale,
3) la stabilitas loci per la quale ciascun monaco professava per il proprio monastero,
questi erano gli elementi che formavano la combinazione dell’ordinamento monastico tradizionale.
Per i monaci di Monte Oliveto l’accentramento dei poteri nel capitolo generale e quindi nel Definitorio non poteva avvenire in presenza del regime vitalizio dell’abbaziato, mentre la limitazione dell’autorità dell’abate aveva bisogno dì essere compensata da una forte struttura di governo centrale in grado di esercitare un controllo periodico sui singoli monasteri.
Le costituzioni olivetane del 1572 non attribuivano al “Banchetto”, poi dal 1627 chiamato “Definitorio”, il potere di assegnare le nuove famiglie, rieleggere i vicari, i cellerari e i maestri dei novizi, ma al capitolo generale annuale. Al capitolo generale biennale se n'alternava uno annuale riservato agli aventi voce, ai visitatori e al procuratore generale.
E’ vero che lungo il tempo si manifestò una tendenza a restringere il sistema rappresentativo dei partecipanti.
Il primo tentativo di radiare la categoria dei discreti fu promosso dall’Abate Generale Antonio Bentivoglio nel 1539 e fallì per la forte resistenza dei monaci. Nelle costituzioni del 1564-68 fu inserito nelle costituzioni la misura limitativa che escludeva dal massimo organo rappresentativo i monaci sprovvisti dell’ordine sacerdotale.
Lungo il tempo comunque il consolidarsi di una struttura tipicamente verticistica fu ulteriormente favorito sia dai mutamenti di composizione del capitolo annuale sia dalla sua sostituzione con l’organo ristretto della “Dieta”.
In un periodo intermedio infatti il cardinale protettore degli Olivetani Paolo Camillo Sfrondati ritenne opportuno nel 1603 restringere il diritto di partecipazione al capitolo annuale all’abate generale, al suo vicario e ai visitatori.(cfr. Tagliabue)
Ma la norma che prevedeva la partecipazione dei “discreti” al capitolo come rappresentanti delle comunità conventuali fu finalmente inclusa nel progetto di riforma elettorale voluto dall’abate generale Giustino Roselli nel 1705, ma fu inspiegabilmente cassata al momento della ratifica presso la competente congregazione romana.

Suddivisione interna e raggruppamenti geografici. . = ===================================

L’aspirazione a valorizzare le cariche e lo stesso status monastico sul piano meramente onorifico inizia tra gli Olivetani con l’attribuzione, nel 1535 del titolo di abate, fino allora riservato al solo superiore dell’abbazia madre, ai priori dei singoli monasteri e l’abbandono, nelle costituzioni di dieci anni dopo, 1545, dell’umile appellativo di “frate” per quello di “don” per i monaci sacerdoti, con la conseguente riserva del “fra” precedentemente usato in maniera indistinta per tutti gli olivetani, ai soli conversi.
Il processo di suddivisione territoriale raggiunse il culmine nella congregazione olivetana in parallelo con il suo notevole incremento.
Nel 1535 la congregazione fu divisa nelle due sezioni, cismontana e oltremontana, per distribuire alternativamente l’onore del generale e per variare il territorio soggetto alla giurisdizione dei visitatori rispetto alla regione di provenienza.
Nel 1556, oltre a mantenere l’alternativa circa l’elezione del generale e dei visitatori, furono introdotte sei province e assegnato l’ordine del rispettivo turno generalizio.
Nella congregazione olivetana si dette ulteriore sviluppo con una ripartizione ulteriore, interna alla ‘provincia’, chiamata ‘nazione’.
Nelle costituzioni del 1564-68 la prima denominazione fu usata per indicare l’aggregazione di un discreto numero di monasteri (fino a dodici) accomunati dall’appartenenza alla stessa regione geografica o sottoposti ad un unico potere politico, mentre la seconda fu attribuita a pochi o singoli monasteri situati in città prestigiose e importanti.
La nuova suddivisione in ‘nazioni’, di lì a pochi anni, veniva applicata in modo uniforme e sistematico alle diverse province, per cui ciascuna circoscrizione minore o ‘nazione’ era formata da uno o più monasteri e prendeva nome dalla città ove era situato il monastero principale.
L’introduzione delle “nazioni” monastiche, che all’inizio avvenne in via consuetudinaria, può far intravedere non solo un riflesso di diffuse tendenze sociali e culturali del tempo, ma anche il tentativo di rispondere all’esigenza maturata dal basso, di una maggior giustizia distributiva delle cariche o delle prelature. D’ora in poi per l’elezione del generale e delle altre cariche centrali, si cominciò a seguire il turno delle rispettive “nazioni” nel rispetto della regola dell’alternanza fra i raggruppamenti. Per cui il principio che regolava la distribuzione delle prelature si applicava in base ad un criterio, non più indiscriminato, ma provinciale o secondo le “nationes”. La rappresentanza territoriale dalla metà del cinquecento non rimase confinata nel terreno meramente elettorale, ma divenne un fattore di trasformazione dell’intera organizzazione olivetana.
In pratica ogni “natio” doveva avere i suoi abati, questi nell’elezione del loro ufficio non potevano valicare le barriere della “natio” d’appartenenza (cfr. Tagliabue, Gli abati di San Bartolomeo di Rovigo, p.67) e queste limitazioni di movimento condussero gradualmente ad una restrizione progressiva dell’area di circolazione dei superiori, dall’intera rete delle comunità, come invece avveniva nei primi secoli nell’ordine olivetano.
E’ certo che anche il potere politico accoglieva favorevolmente questa tendenza particolaristica e mal sopportava la presenza e l’azione di superiori stranieri sul proprio territorio, ma aveva evidenti risvolti negativi di carattere interno, perché ostacolava il ricambio del ceto dirigente monastico.
L’inamovibilità extraterritoriale degli abati ebbe conseguenze rilevanti anche sul loro profilo giuridico. Dovendosi contemperare col principio della temporaneità delle cariche, essa costrinse gli abati ad una rotazione pressoché automatica dell’esercizio della prelatura nei monasteri di una determinata “nazione.”
L’altro risvolto negativo di carattere interno era la difficoltà di osservare l’avvicendamento ciclico che teoricamente doveva avvenire con cadenza triennale, e spesso di fatto veniva protratto oltre tale termine, perché risultava impossibile realizzarlo, non esistendo altri cenobi.
In questi monasteri, tra la metà del seicento e la fine del settecento venne reintrodotto di fatto il regime della perpetuità abbaziale, come per esempio a Venezia, Lendinara, Rovigo, Arezzo, San Gimignano, Volterra, Lucca e Pistoia.
Questa suddivisione, resa definitiva dalle costituzioni del 1572, verrà riformata solo nel 1785, quando le soppressioni asburgiche e la crescita dei monasteri nel territorio genovese porteranno alla creazione della nuova provincia ‘ligure-lombarda’ (cfr. Scarpini, I monaci..pp.405-406).
In riferimento alla crescente esigenza di rappresentanza delle nazioni per avere degli abati propri, le costituzioni olivetane del 1568 avevano ovviato stabilendo che ciascuna circoscrizione dovesse avere tanti monaci quanti i propri monasteri ne potevano mantenere, tanti prelati quanti erano i monasteri, tanti ufficiali quanti competevano.
Ma presto le deroghe si accumularono. Nella dieta di Bologna del 1592 fu stabilito che il generale potesse destinare gli abati a suo piacimento da ciascuna provincia o nazione, in modo da evitare che alcune abbondassero di abati, mentre altre ne fossero prive.
L’anno seguente, il cardinale protettore Sfrondati sollecitò un breve da Clemente VIII per rafforzare il principio che ogni monastero o casa apparteneva alla Congregazione e non a qualche particolare circoscrizione interna. Infine sempre per evitare che il numero dei monaci in grado di conseguire la prelatura abbaziale diventasse eccessivo rispetto ai posti effettivamente disponibili, lo stesso cardinale Sfrondati fu costretto a emettere nel 1611 un decreto col quale si confermava che “tot essent abbates quot monasteria” e che i superiori più giovani non fossero investiti della prelatura finché il posto non vacasse effettivamente. (cfr. Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars prima, pp.175-177).
Probabilmente il particolare impegno che durante la prima metà del seicento venne profuso dalle singole “nazioni” olivetane per la fondazione di piccoli cenobi, in genere sprovvisti di membri e di rendite, non va ricondotto soltanto alle strategie insediative della congregazione, ma anche alla volontà di accrescere il numero delle cariche residenziali.
A spingere verso l’acquisto delle prelature concorrevano certamente diversi motivi fortemente sentiti nella società seicentesca: da quello onorifico a quello della legittimazione nobiliare, che il titolo apportava alla famiglia, da quello delle gratificazioni economiche connesse alla carica, a quello dei privilegi e delle esenzioni dal servizio monastico.
In diverse occasioni i pontefici intervennero per contenere lo spirito di ambizione dei monaci.
Un primo tentativo di ricondurre la concessione delle prelature titolari sotto il controllo della congregazione e di farne un’equa ripartizione tra le circoscrizioni territoriali fu esperito nel 1671.
Sfruttando le buone disposizioni di Clemente X verso gli Olivetani, il generale Pepoli da un lato fece ribadire la condanna della piaga dell’ambizione, escludendo dalle dignità coloro che se le procuravano mediante maneggi, dall’altro chiese, con un secondo breve, una mitigazione del divieto assoluto di nominare abati titolari con la creazione di dodici cariche da assegnare ai benemeriti di ciascuna “provincia”(mentre Urbano VII con breve del 6 gennaio 1627 aveva assolutamente vietato la nomina di abati titolari; cfr. Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars seconda, p.189).
Per offrire ai monaci un ulteriore sbocco alla domanda di avanzamento, il Pepoli, di pari passo, ottenne da Clemente X il riconoscimento dell’alternativa abbaziale e cioè della possibilità che l’abate di governo accossentisse al alternare ‘ad tempus’ l’ufficio con qualche monaco sprovvisto del titolo, ma non dei requisiti sostanziali per il suo esercizio.
Ma la reazione di coloro che si trovavano già in possesso delle cariche titolari costrinse il Pepoli prima a sollecitare un terzo breve papale per imporre regole di contenimento al nuovo istituto giuridico e poi nel 1672 a chiedere addirittura al pontefice di rinunciare ai precedenti brevi circa la creazione di abati titolari e delle alternative abbaziali.
I vertici olivetani furono costantemente contrastati tra le forti aspirazioni d’avanzamento e di carriera dei monaci, le pressioni interne ed esterne di personaggi influenti e l’esigenza di procedere ad un riassetto morale e disciplinare.




Contesto culturale e sociale.
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Narrano gli storici ufficiali della Congregazione Olivetana, come il generale Pueroni, tra il secondo e il terzo decennio del seicento, si fabbricasse una lussuosa residenza a Monte Oliveto dove mangiava e beveva lautamente “dal meglio che entrava dalle possessioni e altrove lasciando passare gli avanzi ai monaci da basso” (dal Palazzo al refettorio comune).
Dopo la mensa si ascoltavano musiche e suoni da novicordo e si giocava a sbaraglino e al trucco. Per ricreare l’animo del generale non mancavano poi diversi “cagnolini bolognesi di gran prezzo. All’archicenobio, insomma, tutto spirava pompa ed albagia”.
Che questo genere di vita non fosse avvertito in contrasto con gli ideali monastici sembra indicarlo il titolo della voluminosa opera a cui nell’otium potè attendere il Pueroni con l’aiuto di diversi collaboratori :”De regularium aristocratia” (cfr. Lancellotti p.229: pubblicato in 4 volumi nel 1633).
Anche gli olivetani assorbirono dei modelli culturali in riferimento all’estrazione sociale e alla provenienza generalmente nobiliare dei monaci e decisero nel 1711 di ammettere nella congregazione “quei soli vestiendi in cui concorrano, per quanto sia possibile e nobiltà di nascita e buoni talenti e sufficiente letteratura(cfr. Tagliabue, Gli abati di San Bartolomeo di Rovigo, cit., p.69, nota 22).
E’ certo che il reclutamento aristocratico dei monaci di coro rispose, almeno in parte, alla necessità della congregazione monastica di soddisfare gli obblighi fiscali di cui era stata gravata dalla S. Sede, a partire dalla metà del cinquecento.
Per alleggerire i pesi imposti dalla Camera apostolica si cominciarono ad accettare di preferenza novizi di ricca condizione, a cui la famiglia potesse passare una certa pensione annua, per il loro mantenimento, pensione che venne versata bensì nelle mani del depositario, per salvare la sostanza del voto di povertà, ma in qualche modo rimaneva sempre a disposizione del monaco.

La pressione fiscale di Roma.
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Tra il 1630 e il 1680 le casse centrali delle congregazioni monastiche italiane si trovarono esposte ad una difficile congiuntura determinata da molteplici fattori.
La maggior parte dei monasteri aveva diminuito in maniera consistente la propria rendita netta a causa delle frequenti vicende belliche, dei cicli stagionali sfavorevoli, delle conseguenze della peste, della cattiva amministrazione dei beni.
Anche la congregazione olivetana fu caricata da parte della S. Sede d’un esoso peso fiscale che l’aveva costretta negli anni precedenti ad accumulare debiti su debiti. Oltre a sopportare pagamenti di decime, di annate, di quindenni dovette sopportare pesantissime contribuzioni per le guerre contro il Turco e per altri bisogni materiali della Chiesa, compresi quelli del suo apparato statale.
L’8 novembre 1539 con un breve Paolo III da Roma ‘dichiarava esente la Congregazione Olivetana dal pagamento di 500 scudi d’oro’ (Reg. Oliv.: III,n.48).
Ma con il 1543Paolo III imponeva al clero secolare e agli ordini religiosi possidenti d’Italia una tassa di trecentomila scudi d’oro, iniziando in modo deciso la fiscalità romana, gravando tutti i monasteri del quarto delle loro rendite. (cfr. Margarini, Bullarium Cassinese, cit. I, p.164, cost.165).
Un’altra dichiarazione per un condono di 500 scudi d’oro è concessa da Paolo III (Reg. Oliv. III,50), così il 9 gennaio 1547 Guido Ascanio Sforza da Roma attesta il pagamento di 3.000 ducati d’oro da parte della congregazione olivetana, compresi 100 scudi d’oro versati dal monastero di San Benedetto di Siena (Reg. Oliv..III,68).
Il generale olivetano Giovanni Francesco di Perugia (1572-1576) promosse un’ispezione in tutti i monasteri, condotta da tre abati di fiducia, per ripartire le tasse da parte dell’Ordine e della Camera Apostolica. (Lancellotti, Istoria olivetana dei suoi tempi, cit. pp.201-202).

Il Procuratore Generale

Sappiamo che le Costituzioni olivetane prevedevano che il Procuratore generale fosse eletto dal Definitorio tra due monaci proposti dall’abate generale. Doveva essere professo da quindici anni: “vir industrius, bonis moribus, et litteris praeditus”(Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars prima, p.125).
Per rimediare al meglio l’incapacità di assolvere i pagamenti alla procura generale nella Congregazione olivetana si escogitarono diversi mezzi tra cui l’accumulo in vita per attività d’insegnamento nel 1637 o la sospensione dell’effettuazione di visite canoniche di quattro
province periferiche come Lombardia, Veneto, Romagna, Regno nel 1685 o la sospensione della celebrazione del capitolo generale come avvenne nel 1687, per aver così la disponibilità per pagare più facilmente le decime imposte per la guerra contro il Turco (AA.PP. IV, f. 338 ss.).
Alcune province olivetane reagirono con uno spirito di muta assistenza allorché furono poste di fronte alle gravi strettezze finanziarie dei monasteri veneti, come nel 1684, quando i cenobi napoletani anticiparono la somma addizionale di trecento scudi, ricaduta sulle altre province italiane a causa della crisi veneta. Si arriva così a Benedetto XIV, che rinunziando a crediti difficilmente esigibili concesse nel 1742 l’affrancazione dell’imposizione del 1571 e con questa inversione di tendenza, si ebbe una stagione politica ed economica più tranquilla, eliminando un grave condizionamento alla vita economica di molti monasteri.
Uno sguardo sull’apporto determinante avuto dall’azione razionalizzatrice messa in atto dal papato e dagli interventi e preoccupazioni degli stati regionali nella fase del loro consolidamento può essere utile per comprendere il processo di strutturazione anche della Congregazione monastica olivetana fra quattro e cinquecento e i mutamenti avvenuti tra la prima metà del cinquecento e quella del seicento.
L’intreccio tra potere politico e religioso in Toscana fu forte, soprattutto per il fatto che la casa Medici ha ricoperto per ben tre volte la suprema carica ecclesiastica, mantenendo per due secoli un peso considerevole nella curia romana.
La Congregazione olivetana tra il cinque e seicento, per il suo carattere accentrato e per la mobilità interna riuscì a mantenersi un organismo unitario, adattandosi con la divisione in province alle pieghe geografiche delle varie realtà statuali.
Tra la fine del cinquecento e il primo trentennio del seicento furono promossi tentativi d’unione spontanea con la Congregazione Olivetana: sia da parte dei Verginiani (1580-1584 e 1629: ambedue falliti), da parte dei corpocristiani (1582 e riuscito), sia da parte dei camaldolesi (1637 e fallito).
La prima occasione si era già presentata nel 1595, quando un ex olivetano, Giovanni Battista da Prato, divenuto maggiore degli eremiti di Camaldoli, prima aveva preteso di riformare il breviario fino ad allora usato sostituendolo con quello olivetano, poi passato a Montecorona aveva lavorato per una nuova unione fra i due eremi, intervenendo sull’arcivescovo di Milano Federigo Borromeo, nominato visitatore apostolico. Un mese prima che questi giungesse a Camaldoli Ferdinando I gli aveva scritto una lettera degna della sua larga esperienza curiale, per metterlo al corrente dei motivi precipuamente politici che rendevano inopportuno e dannoso questo miscuglio di unione con i coronasi

Organizzazione monastica e riforma Innocenziana.


La presenza benedettina in Toscana viene caratterizzata da due elementi:
1) l’esclusività degli antichi ordini rispetto alle diramazioni moderne e riformatrici,
2) la netta predominanza degli ordini autoctoni con la ricca eredità medievale come quello degli Olivetani, eredità rinforzata dai forti vincoli di filiazione tra l’abbazia madre e quelle dipendenti.

La consistenza organizzativa.

Il territorio granducale vedeva operativi tra le dieci formazioni benedettine maschili
undici monasteri di monaci olivetani e rispetto alla fisionomia complessiva della Congregazione olivetana in Toscana gravitava circa un quinto dei cenobi olivetani (e cioè 16 su 81).
Fra le novità gli olivetani vantavano la fondazione nel 1639 del monastero di S. Maria Assunta a Rapolano e una cura del patrimonio artistico dei loro monasteri non inferiore a quella dei cassinesi.
Furono infatti eseguiti considerevoli abbellimenti a Monte Oliveto Maggiore, voluti da diversi abati generali, era stato anche restaurato il monastero di San Benedetto di Siena, “rimodernata in parte” la chiesa di s. Girolamo di Agnano in diocesi di Pisa e da poco avevano proceduto ad una vasta opera decorativa della chiesa di San Benedetto di Pistoia.(ASV. S.Congregatio super statu regularium, Relations,n.35, cc.62,74,83,103).
Il confronto tra le entrate e le uscite dichiarate era per gli olivetani espresso con un avanzo di 5766 scudi romani, una situazione in attivo a differenza di numerosi monasteri di altre formazioni monastiche, che avevano una situazione tutt’altro che buona soprattutto per l’enorme peso fiscale della curia romana.
Il numero degli Olivetani nel 1650 era di 133 monaci in Toscana e in prevalenza Sacerdoti coristi e in una quota percentuale più alta di altre istituzioni e specificamente 75 su un totale di 133 pari al 56,4% e quindi il numero dei monaci avviati agli ordini sacri toccava la punta massima insieme ai camaldolesi.

I rapporti con la società e con la chiesa locale.

L’azione degli Olivetani era andata evolvendo verso le direttrici comuni ad altre congregazioni monastiche, cioè il carico del ministero delle proprie parrocchie era in genere diretto, solo in un caso si avviava la sostituzione di un monaco con un sacerdote secolare per la cura d’anime in questo periodo.
Ci fu contemporaneamente un forte investimento di denaro e di idee nell’arredo delle chiese per renderle sempre più accoglienti e capaci di trasmettere un messaggio devozionale particolare, con rapporto preferenziale con i gruppi della nobiltà locale.
Espressione tipica e sintetica di questo orientamento fu nella chiesa di Monte Oliveto di Pistoia, dove la radicale trasformazione degli interni con la costruzione di cinque nuove cappelle o altari, risultava funzionale alla solennizzazione del culto della santa dell’Ordine, santa Francesca Romana e delle cerimonie dei cavalieri di s. Stefano che vi emettevano la professione. (AVS: Congregatio super statu regularium, Relationes, n. 35, c.839).
Oltre che da forti vincoli di natura economica dovuti alla proprietà fondiaria la vita delle popolazioni risultava legata ai monasteri olivetani sul terreno religioso, assistenziale e talvolta giuridico.
I canali istituzionali attraverso i quali si riverberava l’azione pastorale erano le parrocchie dei monasteri con la cura d’anime e le parrocchie da essi giuridicamente dipendenti, se pur poche tra gli olivetani. Non sempre i rapporti tra monaci e popolazione furono idilliaci, anzi il caso preoccupante di un eccidio di due monaci olivetani uccisi nel 1638 a Chiusure, nei pressi di Monte Oliveto Maggiore. La questione si trascinò davanti a Ferdinano II al quale gli abitanti si erano rivolti con memoriali infamanti la Congregazione.

La costituzione apostolica di Innocenzo X.

In esecuzione della costituzione apostolica di Innocenzo X del 22 ottobre 1652, per far fronte alle spese generali era stata ordinata la chiusura di alcuni monasteri.
Nella provincia lombarda furono chiusi:
- il monastero di S. Lorenzo di Cremona,
- il monastero della SS. Annunziata di Lodi,
- il monastero di S. Giovanni in deserto di Cremona,
nella provincia dell’Umbria: - il monastero di S. Silvestro di Todi;
nella provincia veneta - il monastero di S. Maria di Lendinara
- il monastero di S. Elena di Venezia;
nella provincia di Romagna - il monastero di S. Maria in Gradara di Mantova
(cfr. A.Stato Milano, S. Vittore Grande, Privilegi Eccles.,20).
In seguito fu presentato all’approvazione della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari l’elenco definitivo dei noviziati olivetani che erano otto e cioè:
1) – Monte Oliveto Maggiore
2) – S. Girolamo di Quarto
3) – S. Michele in Bosco di Bologna
4) – S. Maria di Baggio (Milano)
5) – Monte Morcino di Perugia
6) – S. Maria in Organo di Verona
7) – Monte Oliveto di Napoli
8) – S. Maria del Bosco in Sicilia.

Il governo toscano nella fase esecutiva della riforma innocenziana non si limitò a premere direttamente sugli organi curiali ma avanzò anche riserve giuridiche in merito ai “conventini” già soppressi e alla destinazione dei loro beni.
Lo strumento giuridico che venne usato per impugnare le disposizioni romane fu il diritto di patronato su alcune abbazie spettante alle comunità locali o ai Medici.
Le Congregazioni benedettine furono oggetto su scala nazionale di un trattamento privilegiato per ciò che concerne la conservazione delle abbazie e le soppressioni nel granducato furono quasi insignificanti. Certo la presenza dei conventini proprio nelle località più disastrate assicurava pur sempre una serie di indispensabili servizi religiosi assistenziali e di controllo sociale. E il governo toscano aveva quindi tutto il vantaggio a conservarli.
Di gran lunga più rilevante fu la secolarizzazione di centoventi grance dei benedettini, di cui sette degli olivetani; questo provvedimento sconvolse i caratteri tradizionali della presenza e dell’azione benedettina nel società e nella chiesa e il baricentro della vita monastica si spostava dalla società all’abbazia.
E’ certo che le soppressioni innocenziane erano finalizzate anche alla restaurazione della disciplina e al ripristino della vita comune, a moderare l’attaccamento dei monaci al denaro nell’eliminazione dell’occasione d’accumulo e all’esercizio dei ministeri e della pastorale.

L’interventismo religioso di Cosimo III.

Se le abbazie di Monte Oliveto Maggiore insieme a Camaldoli e Vallombrosa fossero state soppresse, la Toscana non solo sarebbe stata depauperata di tre ordini religiosi, ma avrebbe al tempo stesso perduto anche notevoli vantaggi che provenivano da questi tre santuari.
Queste presenze alimentavano la pietà religiosa dei cittadini con benefici morali, e le abbondanti elemosine che venivano distribuite a migliaia di poveri ne sollevavano le sorti.
L’intreccio tra politica e religione era evidente.
Il Granduca si era formato un’ampia ragnatela di relazioni, di amicizie e di appoggi nei dicasteri romani, essenziali per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Mediante il fitto carteggio con questi esponenti curiali il granduca riuscì a mantenere in carica più a lungo possibile, mediante conferme Camillo Maria Nelli ad abate del monastero olivetano di Firenze (cfr. ASF. Mediceo del Principato n. 314 s.c. lettera del 27 giugno 1685) o a promuovere l’avanzamento di alcuni quadri intermedi ai vertici dell’Ordine, come con la raccomandazione di Cosimo III nel 1706 ad abate generale sempre in favore di Camillo Maria Nelli.


La soppressione degli ospedali monastici sotto la reggenza lorenese.

Il processo di laicizzazione dell’assistenza ricevette una forte spinta in avanti sotto la reggenza lorenese con la soppressione di numerosi ospedali e ospizi e con misure complementari che toglievano ogni forma di direzione e di giurisdizione ecclesiastica su questi enti.
Una progressiva azione per attribuire allo stato un ruolo sempre maggiore in materia sociale portò anche all’eliminazione di un plurisecolare canale di comunicazione e di interscambio funzionali tra l’organizzazione monastica e la società.
Gli ospizi continuavano nei primi decenni del settecento a svolgere la tradizionale funzione di xenodochi, a ricevere viandanti senza distinzione, come a Monte Oliveto Maggiore e a S. Maria Asnelli della badia di s. Benedetto di Pistoia tra gli Olivetani.
Da parte politica la decisione del Consiglio di reggenza di ristrutturare radicalmente la rete assistenziale si collocava in un disegno tendente a reprimere il vagabondaggio e ad inasprire le misure di vigilanza. Il maggior numero delle operazioni di soppressione avvenne nel quindicennio 1741-1755. In questo periodo furono aboliti nello stato senese 76 piccoli ospizi.
Se i provvedimenti di soppressione riproponevano problemi di legittimità canonica, per gli ospizi del senese i loro beni rimanevano di natura ecclesiastica e perciò la giurisdizione politica non poteva estendersi né a sopprimere questi corpi né a derogare direttamente alle condizioni dalle quali dipendevano i loro acquisti.
(cfr. Lo Stato di Siena: Ospedali soppressi : ASF. Reggenza, n. 555, cc.735-1070).

Il riordinamento dell’organizzazione monastica sotto Pietro Leopoldo.

La soppressione di abbazie e monasteri venne per la prima volta prospettata nella circolare ai vescovi del 21 aprile 1773, ma la vera e propria svolta programmatica si ebbe con la circolare del 12 gennaio 1778, che conteneva l’elaborazione d’un vasto progetto di riforma dell’organizzazione regolare.
Esso prendeva il distacco delle Congregazioni religiose dalla curia romana con la conseguente eliminazione di ogni tributo, la nazionalizzazione dei religiosi e la conseguente espulsione dei forestieri, la riduzione delle case e l’impiego dei monaci in attività collaterali utili per la collettività. Non ostante le forti difficoltà si ha ragione di credere che un’intesa diretta tra le parti fosse ritenuta possibile da parte del granduca.
La circolare dell’8 gennaio 1780 a firma di Stefano Bertolini, che invitava i superiori religiosi a sorvegliare circa la “esatta e regolare osservanza” delle costituzioni e delle regole dell’Ordine sembrava offrire una collaborazione.
Il generale degli Olivetani Antonio Luigi Antonio Stampa non tardò a capire che una preventiva pattuizione delle misure soppressive avrebbe evitato atti unilaterali dei sovrani assoluti e sventato colpi più duri alla Congregazione. Per cui dopo aver sottoscritto un’intesa con il governo imperiale per la riduzione dei monasteri in Lombardia propose nel 1775 un piano analogo per la Toscana, che portò alla soppressione di due monasteri nel senese, cioè quello di S. Maria di Barbiano presso S. Gimignano e quello di S. Maria Assunta a Rapolano, con la conseguente distribuzione dei monaci, delle rendite e degli obblighi fra gli altri monasteri. (cfr. Motuproprio granducale del 31 dicembre 1775, pp.386-389).
Nel 1773 avvenne la permuta del monastero olivetano di S. Pietro in Vinculis o S. Pierino di Pisa con quello di S. Michele degli Scalzi nella stessa città, appartenente ai canonici lateranensi. (Scarpini, I monaci.,p.381; Greco, la parrocchia a Pisa, cit. pp.141-142).
Presso il monastero di S. Benedetto di Pistoia, i monaci si erano impegnati in un servizio di pubblica utilità, come il mantenimento di un maestro per insegnare alla popolazione i primi elemento di grammatica.
Per l’esiguo numero di monaci un editto granducale del 27 ottobre 1774 aveva soppresso il monastero olivetano di S. Bartolomeo delle Sacca presso Prato e trasferiti i beni al Collegio Cicognini. Certo da parte dei superiori restava difficile rispondere positivamente alle richieste granducali di accrescere l’organico dei piccoli conventi e di allargare il campo degli impegni apostolici e sociali, come si richiedeva al Generale degli Olivetani per il monastero di s. Anna in Camprena di Siena (cfr. ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269,p. 95).

Le soppressioni monastiche di Pietro Leopoldo.

Le teorie regaliste posero una giustificazione giuridica al potere di sopprimere i conventi e di mutare la destinazione dei beni.
Nel giugno 1783 fu stabilito che S. Maria in Gradi di Arezzo fosse trasformata in parrocchia e concessa agli Olivetani di quella città, che a loro volta avevano ceduto il monastero di S. Bernardo al Vescovo di Arezzo per la casa di esercizi spirituali per il clero.
Lo stesso Vescovo Marcacci ne aveva auspicato il subentro degli olivetani ai cenobiti camaldolesi in Arezzo.
E’ certo che i superiori regolari sebbene interpellati per primi, finirono per essere sostanzialmente esautorati dai processi decisionali, perché il granduca preferì consultare con sempre maggior frequenza i vescovi, attratti dai vantaggi che sarebbero derivati alle loro diocesi.
Il giudizio che il granduca si era fatto della condotta e dello scarso servizio dei monaci influì nella decisione di ridurre drasticamente da undici a tre i monasteri della Congregazione di Monte Oliveto. E’ vero che esisteva una sproporzione vistosa fra il numero delle case e gli organici. Infatti il numero complessivo dei membri della Congregazione olivetana dopo una crescita da 852 a 911 tra il 1705 e il 1735, scese a 86 nel 1770;

i monasteri erano 7 con 20-30 membri
12 con 10-20 membri
60 con un numero inferiore e cioè da 3 a 10 membri.
(Cattana V., Monasteri e monaci olivetani durante il secolo XVIII, in Settecento monastico italiano, cit. pp.419-439 in specie l’Appendice I. In Toscana nel 1767 su 11 monasteri)
5 erano formati da 4-7 membri
3 da 9-10 membri
3 da 12 o più membri. (ASF, Segreteria di gabinetto, n.49 ins. 19).
La soppressione di otto monasteri olivetani venne decretata volta per volta dal granduca senza che prima fosse stabilita una lista delle case in pericolo e senza preavvisi del governo all’Abate generale.
Dopo S. Benedetto di Pistoia, soppresso il 3 agosto 1782 su consiglio del Ricci, toccò all’abbazia di S. Anna in Camprena in Val d’Orcia, che venne abolita il 31 maggio 1784 su proposta del Vescovo di Chiusi e Pienza, Giuseppe Pannilini. Questi fu incaricato dell’esecuzione del provvedimento che prevedeva il passaggio di proprietà degli edifici alla Diocesi e l’utilizzo delle entrate unicamente per soccorrere le chiese povere ed erigerne delle nuove. (ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269, c.102, biglietto della Segreteria di Stato del 31 maggio 1784). Tra il Vescovo Pannilini e i monaci seguì una vertenza sui beni di uso personale.
Il motu proprio del 12 giugno 1784 pose le premesse per l’abolizione di altre due case olivetane; con esso si intese porre fine all’abuso di mantenere a Monte Oliveto una quantità non indifferente di ‘forestieri’ mediante la loro espulsione entro l’agosto seguente.
La perdita di dieci monaci esteri rispetto all’organico di ottantasei provocò, per insufficienza di personale, la soppressione dei monasteri di S. Michele degli Scalzi di Pisa, passato alla Congregazione da appena un decennio e di s. Andrea di Volterra. Il monastero di S. Andrea di Volterra aveva riuniti i beni con l’altro di S. Maria di Barbiano. La media decennale dello stato economico dal 1774 al1784 dava un attivo complessivo di 1984 scudi a fronte di un passivo di 703 scudi. I Monaci lasciarono la casa agli inizi del settembre 1784. La soppressione effettiva del monastero di S. Michele degli Scalzi avvenne il 1° giugno 1784 sotto la vigilanza dell’arcivescovo di Pisa che, in un secondo tempo, credette opportuno stabilire una nuova parrocchia in S. Croce dei minori osservanti piuttosto che in S. Michele.
L’ultimo monastero olivetano ad essere soppresso da Pietro Leopoldo fu quello di S. Maria in Gradi di Arezzo, che era anche il più recente tra quelli aggregati all’Ordine. (Rescritto granducale del 17 agosto 1786, AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins. 1786).
La destinazione dell’edificio conventuale a parrocchia o a casa di esercizi spirituali e l’incorporo dei beni nel patrimonio ecclesiastico diocesano portano a credere che l’eliminazione del cenobio rientrasse nel più vasto programma di riordinamento della diocesi aretina. I provvedimenti contro gli Olivetani furono nel complesso particolarmente duri, non solo per la spoliazione della maggior parte dei beni, ma anche per la forma in cui vennero eseguiti.
A Pistoia per esempio il monastero di S. Benedetto fu circondato dagli uomini del giusdicente nell’ora di pranzo e fu intimato ai monaci di partire immediatamente (ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269, cc.440-595). I tempi di evacuazione furono in genere particolarmente stretti e non ammisero alcuna proroga. Ai monaci che erano stati privati del monastero non fu erogata alcuna pensione, ma solo un “discreto viatico per ciascuno” e il rilascio dei mobili e degli altri oggetti personali.
I rapporti tra il granduca e l’Ordine olivetano erano talmente compromessi che l’abate generale fu totalmente escluso dalle consultazioni e l’attuazione dei provvedimenti fu affidata esclusivamente ai vescovi.


Il riassetto organizzativo delle Congregazioni maschili.

Quale fu il ridimensionamento che per ciascuna congregazione venne attuato? Su 55 monasteri benedettini esistenti nel 1767, 31 ne rimasero in piedi nel 1786 con un calo del 44% e in complesso tutti gli ordini subirono una diminuzione di sedi proporzionalmente uguale.
Il patrimonio dei monasteri soppressi tra il 1782 e il 1786 non fu incamerato nelle casse dello Stato ma in gran parte alienato e destinato per vari scopi.
I beni dei due monasteri olivetani e di due certose passarono al Patrimonio ecclesiastico competente per i bisogni del clero diocesano.
Pietro Leopoldo ebbe anche un atteggiamento diversificato verso il mondo monastico.
La collaborazione tra il granduca e i benedettini si sviluppò anche nel settore della cultura e dell’istruzione pubblica. Anche i monaci di Monte Oliveto Maggiore e di S. Bartolomeo di Firenze mantennero nel corso del settecento alcuni giovani secolari in educazione.
Infatti con motuproprio del 31 dicembre 1775 Pietro Leopoldo stabiliva i posti dell’educazione riservati ai giovani nobili nei monasteri di Monte Oliveto e di Firenze. Nel 1776 il granduca raccomandava all’Abate generale un certo Vanni di Volterra e chiedeva un elenco annuale degli altri ospitati a Firenze (AMOM, Ordini di Toscana, cit. lettera di G. Rucellai del 23 novembre 1776).

Le basi della riforma statutaria degli Ordini.

Il promemoria sulla riforma dei regolari del sinodo di Pistoia del 1786 che insisteva sull’idea già espressa dal Ricci, che l’organizzazione autonoma della Congregazione rappresentava un ‘corpo pericoloso’ per la sovranità dello stato fu assunto anche da altri vescovi, che si schierarono sulle posizioni ricciane e anch’essi invocarono misure radicali.
Il vescovo di Chiusi e Pienza mons. Pannilini propose al granduca d’estinguere la Congregazione olivetana per mancanza di soggetti e di sperimentare per primo nella sua diocesi il passaggio dei rimanenti monaci sotto la sua giuridsdizione. Nella lettera del Pannilini del 26 febbraio 1785 al granduca, scriveva “Ognuno vede che questa (degli olivetani) è una delle religioni nel presente loro sistema di minor vantaggio per il servizio del popolo e che va a restringersi talmente il numero dei religiosi qui in Toscana che tra pochi anni non avranno da riempire i loro monasteri”, “io pertanto nel bisogno grande in cui siamo di trovare rendite ecclesiastiche per tanti lodevoli fini che ha in mira l’A.R. crederei opportuno che fosse soppressa nei suoi felicissimi Stati questa religione prima che andasse a finire da se e disastrasse di più le sue rendite” (ASF, Segreteria di gabinetto, n. 43, ins.5).
Segnali anticipatori della legislazione del 1788 furono tanto il decreto del 28 giugno 1781 che escludeva i religiosi “forestieri” da ogni carica di governo dei monasteri e conventi del granducato senza il permesso del sovrano, quanto l’altro del 17 gennaio 1782 che vietava il soggiorno in Toscana a tutti i monaci “forestieri” e ne ordinava l’espulsione ove non avessero beneficiato per buona condotta e per merito della grazia della cittadinanza toscana.
Oltre che ridurre il già smilzo organico delle Congregazioni benedettine, quest’ultimo provvedimento sollevò il difficile problema di come conciliare la prerogativa di alcuni archicenobi toscani con il divieto di accogliere novizi, funzionari e titolari di cariche interne provenienti da sedi estere. Per la prima volta la natura sovrastante degli ordini religiosi entrò in aperto conflitto con la legislazione Leopoldina.
La situazione degli Olivetani fu molto grave. Essi dopo due anni continuavano a trovarsi in una posizione irregolare: Alcune concessioni granducali furono ritenute insufficienti dall’Abate generale che chiarì come l’allontanamento dei monaci esteri avrebbe sconvolto sia l’ordinamento della Congregazione, perché a Monte Oliveto Maggiore era stabilita la carriera per giungere alle cariche primarie, sia la sua economia, perché sarebbero cessate le contribuzioni di circa duemila scudi annui da parte dei monasteri affiliati.
La soluzione proposta dal governo toscano fu quanto mai pragmatica: si concedesse pure agli esteri il permesso di soggiorno nell’archicenobio, ma in numero proporzionato alle tasse pagate dalle sedi affiliate. (cfr.ASF, Segreteria del regio diritto,n. 5282- 1 luglio 1784 e relativo parere).
La completa nazionalizzazione del clero regolare venne attuata il 2 ottobre 1788 con l’abolizione di ogni autorità, superiorità ed ingerenza di qualunque Superiore estero ed il conseguente scioglimento di ogni vincolo passivo di tipo giurisdizionale, disciplinare, economico e di governo da qualunque Capitolo generale, Definitorio e Congregazione tenuta fuori dello stato. Il motu proprio Leopoldino seguiva quello Giuseppino del 20 luglio 1781 per la Lombardia austriaca e quello borbonico del 2 settembre 1788 per il regno di Napoli.
La soluzione fu trovata; fu concesso agli Olivetani che tutti i monasteri della congregazione continuassero a riconoscere la casa madre e fu concessa la possibilità di eleggere abati generali provenienti dalle diverse province, ma non da quella di avere abati e monaci esteri negli altri monasteri del granducato.
Le due novità sostanziali del motu proprio Leopoldino sono in primo luogo il passaggio dalla giurisdizione personale dei generali a quello territoriale dei vescovi in cui era situata la loro casa. Questi avrebbero esercitata l’autorità in materia spirituale e di formazione culturale, mentre ai superiori delle sedi locali sarebbero rimaste competenze d’ordine esclusivamente disciplinare. La seconda novità del decreto era costituita dal tentativo di disegnare un nuovo profilo del governo degli ordini religiosi. Si livellavano le diverse “regole” o ordinamenti col prevedere il “Definitorio” come unica struttura consultiva del generale e del provinciale.
In parallelo con la tendenza espressa dal sinodo di Pistoia del 1786, si introducevano norme tendenti a temperare il principio dalla passiva obbedienza dei monaci e conversi verso l’autorità gerarchica del superiore locale. In particolare si obbligava quest’ultimo a render conto ai confratelli una volta al mese dello stato economico della casa “con dar facoltà ad ogni individuo di dire quanto gli occorra e proporre ciò che creda utile” e si garantiva ai religiosi la facoltà di appellare ai vescovi contro i provvedimenti disciplinari inflitti, nonché ai tribunali e giusdicenti statali per qualunque questione di carattere temporale. Questa timida apertura verso forme di partecipazione collegiale alla vita interna era però controbilanciata dall’intromissione nei capitoli provinciali di rappresentanti dello Stato e dell’ordinario diocesano. Così ogni aspetto della vita materiale dei monasteri e dei religiosi era passato sotto la vigilanza dello Stato, anche l’autonomia deliberativa, amministrativa ed economica degli ordini religiosi fu fortemente limitata.

Il sistema monastico nella Toscana ‘francese’.

Il passaggio di poteri da Pietro Leopoldo a Ferdinando III inaugurò nella Toscana degli anni 1790 una politica ecclesiastica più distensiva e meno rigida, caratterizzata da un maggior rispetto dell’autonomia giurisdizionale dei vescovi e da un atteggiamento più conciliante verso i superiori regolari.
La congregazione monastica che maggiormente beneficiò di questo nuovo clima politico fu soprattutto quella olivetana insieme a quella Vallombrosana.
A Monte Oliveto Maggiore il nuovo Granduca restituì il 24 maggio 1793 la dignità di abbazia nullius nonostante l’opposizione del Vescovo Pannilini di Pienza; assegnò un sussidio annuo di 1500 scudi sulle rendite dei beni eversi e permise che vi si tenessero sei monaci “esteri” “per supplire alla scarsezza dei soggetti capaci di coprire impieghi e uffici della Congregazione” (cfr. AMOM, Ordini di Toscana dal 1770 al 1809, ins.1973 e 1794; Scarpini, I monaci benedettini..pp.417-418).
La Congregazione olivetana beneficiò anche di provvedimenti tendenti ad alleggerire le procedure di controllo statale sulle vestizioni e sulle professioni sacre. Invece di richiedere di volta in volta le autorizzazioni fu concesso agli ordinari d’inviare alla Segreteria del regio diritto una nota delle licenze entro il maggio di ogni anno “a condizione – si precisava – che non possano permettere la vestizione dell’abito regolare prima di diciotto anni compiti” (AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins. 1792, dispaccio della Segreteria di Stato del 7 maggio 1792 trasmesso con circolare del Cellesi il 26 successivo). “Si ammetteva che i religiosi potessero essere ordinati laddove dimoravano in quel momento”.
I limiti però d’età fissati per le vestizioni e le professioni religiose rimasero immutati e la proibizione di accogliere “forestieri” nei monasteri toscani anche per brevissimo tempo fu ribadita costantemente dalla Segreteria del regio diritto con circolare del 21 marzo 1794 al Generale degli Olivetani.
D’altra parte la grave crisi economica e sociale che aveva interessato il granducato fin dagli ultimi anni ottanta sembrò riattivare i rapporti di tipo tradizionale tra i governi che si succedettero nella fase rivoluzionaria e il mondo monastico. L’aggravarsi del debito pubblico, l’ascesa vertiginosa dei prezzi dei generi di consumo, l’enorme incremento delle spese per il mantenimento delle truppe straniere portarono il governo toscano a richiedere, sotto varie forme, la collaborazione economica degli ordini religiosi possidenti.
Un appello in questo senso f u rivolto sin dal 1790 perché si accollassero quote pensioni a carico dei patrimoni ecclesiastici in considerazione degli sgravi fiscali decisi dal governo verso la curia romana nel 1794, perché procurassero lavoro alle manifatture di seta che ne erano sprovviste. (AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins.1794, circolare del Cellesi, 17 gennaio 1794).
La breve invasione della Toscana da parte delle truppe francesi nel marzo 1799 procurò notevoli vessazioni per i conventi e un irrigidimento legislativo verso il clero regolare. Tre giorni dopo l’occupazione, il commissario generale del governo francese Reinhard impose una contribuzione forzosa di diecimila scudi.
A metà aprile fu ordinato ai regolari di “restituirsi ai conventi di loro filiazione o vestizione” cioè di ritornare alla loro patria, entro tre giorni. Ma la Congregazione Olivetana venne esclusa dal provvedimento di rimozione dei religiosi e di esilio dei “forestieri” perché, secondo quanto scriveva il Rivani al generale olivetano il 1° floreal (=20 aprile) Monte Oliveto Maggiore era stato “sempre eccettuato dalla censura della legge sopra i forestieri”. (AMOM, Ordini di Toscana cit., ins. 1799).
Alle angherie dei francesi subentrarono presto le lusinghe del Senato fiorentino, che aveva assunto il governo civile della Toscana dopo l’occupazione degli austriaci. Il 24 settembre il segretario della giurisdizione Cellesi venne incaricato di trattare con gli ordini religiosi “più ricchi” per indurli a prestare denaro con cui provvedere all’approvvigionamento del grano
“ponendo loro in vendita – si faceva rilevare – il merito che si faranno presso il governo” (AMOM, Ordini di Toscana, cit., ins.1799).
La risposta della Congregazione olivetana fu sintomatica. I monaci si dicevano aggravati “all’estremo” e quindi nell’impossibilità di assumere nuovi oneri finanziari e di accrescere le distribuzioni di pane e di contanti, si faceva l’esempio del monastero di S. Bartolomeo di Firenze che erogò circa duemila ogni settimana). Inoltre gli Olivetani denunciavano le spoliazioni di argenteria, biancheria e denaro, non che le contribuzioni e i prestiti coatti che il monastero di S. Bartolomeo di Firenze aveva dovuto effettuare per sussidiare l’ospedale di S. Maria Nova e per supplire alle spese di guerra durante l’invasione francese. A questi mali essi aggiungevano la perdita delle “tasse di regola” a favore dell’Archicenobio causate dalla soppressione di molti monasteri in Toscana e in Italia, e le spese straordinarie di cui erano gravati al presente per il mantenimento gratuito di alcuni alunni nei collegi interni di Monte Oliveto Maggiore e di Firenze, per la sussistenza dei contadini e per i restauri delle case coloniche “rese quasi inabitabili per alcuni terremoti avvenuti nel senese (AMOM, Ordini di Toscana cit., ins.1799).
Non ostante ciò il 13 febbraio 1801 tutti i regolari “esteri” non naturalizzati o sprovvisti di licenza governativa, furono obbligati a partire “immediatamente” dai conventi del granducato (AMOM, Ordini di Toscana dal 1770 al 1809 ins.1801 circolare del Buonarroti ai superiori degli ordini religiosi, 13 febbraio 1801).
Con il passaggio della Toscana sotto la sfera d’influenza dei Borboni di Parma (2 agosto 1801) alla cui casa gli Olivetani erano assai legati, i monaci di Monte Oliveto chiesero ed ottennero nello stesso anno, il permesso di poter sopperire alla mancanza di monaci autoctoni con altri “forestieri” in Monte Oliveto Maggiore, e la facoltà di vestire e di far professare candidati per monasteri esteri e quella di aprire un educandato nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze. (AMOM, Ordini, cit. ins.1802).

Il quadro organizzativo nell’inchiesta del 1807.

Prima ancora dell’annessione del granducato all’impero francese si aprì una fase di vera e propria persecuzione degli ordini religiosi, culminante nella “soppressione generale “ napoleonica.
Dall’inchiesta condotta dall’amministrazione francese sullo stato delle case religiose maschili del 31 dicembre 1807 risulta la sproporzione fra il numero potenziale e quello effettivo dei religiosi e per i monaci di Monte Oliveto tra il 1782 e il1807 il rapporto numerico nell’area campione del Dipartimento dell’Arno era passato da 478 a 375 ed era un rapporto ancora buono. Nel 1807 gli olivetani, sebbene non pagassero dote o tassa d’ingresso dovevano supplire a molte spese “ per comodarsi di tutto il necessario”, per cui avevano un aggravio di circa 500 scudi i sacerdoti e di circa 60 scudi i conversi. (ASS. Governo francese, n.167: nota allo “Stato dei religiosi”).
Il mancato ricambio del personale aveva indotto un progressivo invecchiamento delle comunità. Presso gli Olivetani l’età media era di 51 anni e la distribuzione dei religiosi soffriva notevoli scompensi. Un graduale processo di concentrazione dei religiosi negli archicenobi e nelle case di noviziato aveva provocato una sorta d’abbandono delle restanti sedi, lasciate in custodia ad un manipolo di vecchi monaci. Gli Olivetani si erano radunati prevalentemente nel monastero di S. Benedetto di Firenze e il numero medio degli effettivi in ciascun monastero benedettino oscillava tra i 3-4 e i 6-8 monaci.
La situazione economica degli olivetani che pure aveva subito un notevole peggioramento prima con le soppressioni leopoldine e poi durante la prima occupazione francese, si manteneva su di un livello intermedio.
L’entrata annua di S. Benedetto di Siena era di 30916 lire, compresi censi e livelli; quella di S. Bartolomeo di Firenze assommava a 17982 lire con oltre 13930 lire di censi e livelli.
Monte Oliveto Maggiore aveva crediti inesigibili per 145420 lire (ASS: Governo francese, n. 158).
Quasi tutte le comunità monastiche continuavano il loro impegno caritativo e assistenziale mediante l’apertura delle “spezierie”, l’elargizione quotidiana di pane e di elemosine ai poveri. Anche l’attività di pubblica istruzione aveva ricevuto un indubbio potenziamento nei collegi di S. Bartolomeo di Firenze e di Monte Oliveto Maggiore, dove si tenevano in educazione giovani secolari fino ai diciotto anni.

La confisca napoleonica dei beni.

Le soppressioni napoleoniche furono caratterizzate da un modo di procedere sistematico, uniforme e simultaneo tra l’aprile 1808 e il settembre 1810.
I provvedimenti eversivi delle congregazioni religiose furono preceduti da un’accurata operazione di rilevamento statistico, condotta esclusivamente da qualificati funzionari statali.
Essa mirò a formare un quadro il più possibile esatto delle case, dei beni, del tipo di entrata e delle varie categorie di persone, ma anche ad acquisire tutti i dati utili per l’eventuale cambiamento di destinazione dei locali.
Il primo ordine di soppressione fu emesso dall’amministrazione della Toscana il 29 aprile 1808 in seguito ad un decreto imperiale del 24 marzo, concernente le direttive per la riunione al demanio dei beni delle Congregazioni religiose.
Furono esclusi dal provvedimento i conventi di religiosi e degli istituti di carità nonché le famiglie francescane.
In questa prima fase i religiosi poterono continuare a vivere nelle loro comunità formalmente soppresse, in attesa di venire riuniti in alcuni “luoghi di asilo” dell’ordine; fu tuttavia proibita l’ammissione di novizi senza uno speciale permesso e il pagamento di una somma rilevante; i beni immobili e mobili, le rendite e le proprietà annesse ai conventi furono indemaniate.
Per il sostentamento dei religiosi dal 1 maggio 1808 fu concessa loro una pensione annua di 500 o 600 franchi a seconda della maggiore o minore età di sessant’anni, ridotta della metà per i conversi. (cfr. Bigianti, Le soppressioni dei conventi, cit. p.457).
Il nuovo decreto, che ricalcava nella sostanza quello emanato il 25 aprile 1810 dal Regno d’Italia, prendeva una serie di misure destinate a mutare radicalmente la vita dei religiosi.
Essi dovevano evacuare i conventi entro il 12 ottobre, provvisti solamente della biancheria e della mobilia d’uso personale, presentarsi alla municipalità di residenza per dichiarare il luogo della loro futura dimora, dimettere l’abito dell’ordine a partire dal 1 novembre “sotto pena di essere arrestati dalla polizia”.
Da parte dei monaci olivetani, a nulla valsero i diversi tentativi messi in atto per stornare i decreti di soppressione, mediante raccomandazioni tra i ministri o tra le persone di corte in grado d’influenzare l’animo di Napoleone. Andarono a vuoto anche i ripetuti interventi sul generale Dauchy e sui prefetti dei dipartimenti dell’Arno e dell’Ombrone per evitare la riunione dei Camaldolesi di S. Maria degli Angeli nel cenobio di S. Bartolomeo di Firenze e per ottenere il raggruppamento dei monaci di Monte Oliveto Maggiore in S. Benedetto di Siena. (Scarpini, I monaci benedettini, pp.439-442).
Il 4 marzo 1808 giunsero a Monte Oliveto Maggiore i commissari governativi per sequestrare i beni e prendere possesso dell’abbazia: “In termine di poche ore – narra il cronista – fu sigillato il tutto e ritirate ben anche tutte le chiavi possibili, indi furono restituite a chi le aveva con la responsabilità”. Ai monaci fu lasciato appena il vitto necessario, mentre i novizi furono espulsi dopo due settimane. Alla presenza dei monaci si compirono anche le prime depredazioni artistiche: trenta tra i migliori codici miniati, diversi pregevoli, incunaboli e dieci “stampe”. Il 10 giugno seguente fu chiuso il monastero di S. Benedetto di Siena e i religiosi costretti a trovare dimora nella città in attesa di una stabile collocazione.
(cfr, Sani B:, Memorie e vicende del venerabile monastero olivetano sotto il titolo di S. Benedetto presso e fuori della porta Tufi di Siena, edito sotto il titolo: Pagine inedite di storia olivetana ne “l’Ulivo”, X, 1980, n. 3, pp.49-50).
In generale, tra il 1809 e il 1810 i benedettini della Toscana che erano stati pensionati dal governo francese erano 451, di cui 318 religiosi professi e 133 religiosi laici. Gli Olivetani erano 28 membri, tutti a S. Bartolomeo di Firenze.
A Monte Oliveto Maggiore l’11 ottobre 1810 “ fu sigillato tutto ciò che era rimasto in monastero dalla soppressione in poi inclusive la porta maggiore di chiesa dalla porta interna”, sgomberate le camere dei mobili e date il consegna tutte le chiavi a un custode laico nominato dal governo francese. L’archicenobio rimase una “spelonca”, oggetto di saccheggi delle opere d’arte della preziosa biblioteca e perfino delle campane. I religiosi una volta evacuato il convento, furono sottoposti a controlli quasi polizieschi e obbligati, entro otto giorni a presentarsi alla Mairie o alla prefettura per prestare giuramento di obbedienza alle costituzioni dell’impero e di fedeltà all’imperatore. (cfr. Naselli, La soppressione napoleonica cit. pp.68-140).
Il monastero olivetano di S. Benedetto di Siena invece, dopo essere stato nel 1812 malamente trasformato per alcuni mesi in ospizio per poveri rimase in stato di abbandono.
Sulle scelte da compiere all’indomani della soppressione non mancarono lacerazioni interne tra i religiosi zelanti, particolarmente legati alla loro congregazione e alcuni superiori ormai rassegnati ai cambiamenti imposti dalle circostanze.

Il concordato del 1815 e la restaurazione della vita consacrata.

Dal riscontro delle famiglie ricostituite dai rispettivi vescovi si viene a sapere che gli Olivetani in tutta la Toscana erano tra la fine del 1815 e la fine del 1816 in numero di 30 monaci. Con la Restaurazione si apriva il secolare contenzioso fra la chiesa e lo stato; c’era un impossibilità materiale e politica per ottenere un ripristino integrale degli antichi privilegi, e ciò spinse la curia romana ad accogliere soluzioni di compromesso in cambio del riconoscimento civile degli istituti religiosi e di una parziale ricostruzione del relativo patrimonio.
Espressione di nuovo equilibrio politico fu il concordato tra la S. Sede e la Toscana, concordato stipulato il 4 dicembre 1815.
I principi che dovevano regolare un’eventuale intesa con la S. Sede furono esposti dai più alti consiglieri a Ferdinando III in una “rappresentanza “ del 27 luglio 1815.
Le buone intenzioni del governo granducale verso le congregazioni monastiche si erano del resto manifestate anche durante le trattative preliminari per la stipula del concordato.
Il consigliere Nuti aveva ventilato al cardinale Oppizzoni l’ipotesi che anche agli olivetani fosse riservato un trattamento privilegiato rispetto agli altri ordini mediante l’attribuzione di una “sopraddote” annua complessiva di 10965 scudi. Ciò in considerazione dell’esercizio frequente dell’ospitalità da essi praticato.
Veniva costituita una commissione mista e si fissavano le direttive che avrebbero regolato le operazioni per il loro ripristino e la nomina dei membri della commissione da parte granducale venne fissata con motu proprio del 2 dicembre 1815. La commissione mista si impegnò a “porre in essere prelativamente ad ogni altra la ripristinazione di monasteri tra cui Monte Oliveto Maggiore. Certo per alcune congregazioni monastiche si prefigurava una promettente ripresa, dal momento che sia il testo del concordato sia i lavori della commissione mista avevano mostrato un particolare riguardo verso le famiglie religiose di fondazione toscana.
Ma l’insufficiente numero di monaci disposti a rientrare nei chiostri costituì un limite che impose la restrizione delle riaperture di case monastiche.
Il superiore che oltre a mantenere i contatti con i confratelli, rappresentasse ufficialmente il proprio istituto per gli Olivetani fu Giuseppe Cassinis, che se pur designato dal 30 settembre 1814 non esercitò mai l’ufficio mentre dal 7 luglio 1816 fu surrogato per iniziativa del Cardinale Protettore il lucchese Stefano Giannetti (cfr. Sani, Memorie e vicende ms. cit. edito in “l’Ulivo”,X 1980,p.54).
E’ certo che la riaggregazione dei membri dispersi ad opera dei superiori fu cosa tutt’altro che facile e immediata.
Le date di riapertura effettiva dei monasteri benedettini sono piuttosto avanzate rispetto agli altri ordini religiosi. Il primo monastero fu Monte Oliveto Maggiore il 18 novembre 1816 con un monaco e due conversi. Seguiva il monastero olivetano di S. Bartolomeo di Firenze il 1 giugno 1817 con sei monaci e quattro conversi.

La ricomposizione patrimoniale.
L’organismo monastico usciva dal periodo rivoluzionario e napoleonico decurtato dei vasti patrimoni accumulati nei secoli, diviso al proprio interno dalle numerosissime defezioni e incerto sul proprio destino per la mancanza di membri e per la scarsità di mezzi.
Preoccupazione immediata della Congregazione ristabilita fu di ottenere dalla commissione mista nuovi e più consistenti beni immobili per accrescere la dotazione patrimoniale, che si riteneva ridotta o comunque insufficiente.
Grazie alla zelante attività e ai validi appoggi del loro cellerario Benedetto Bellini gli Olivetani riuscirono a strappare dopo lunghi contrasti con l’arcivescovo e la nobiltà senese la concessione del grande complesso conventuale di S. Chiara a Siena, a titolo di mero ospizio urbano per i monaci dell’Archicenobio, ma con la segreta mira di erigervi, appena possibile, un grande monastero. Infatti tra il “1 giugno e il 13 luglio 1818 la commissione mista assegnò agli Olivetani l’ospizio di S. Chiara a Siena e i suoi annessi come oliveti, frutteti e altri edifici. (AMOM, corrispondenza coll’I. e R. Governo dal 1817 al..; Nuti G. B: al vicario generale, 14 luglio 1818).
Riaperta l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore ci si adoperò per recuperare opere d’arte, reliquie e altri oggetti di devozione particolarmente cari alla memoria dei monaci e della popolazione, come avvenne nel corso del 1817 con il recupero del SS. Crocifisso reliquia principale del monastero e la statuina in cera rappresentante la S. Bambina che era finita in mani di privati. (Sani, Memorie e vicende ms. cit., edito in “l’Ulivo”, X, 1980, n. 4, pp.48-50 Ibid., XI, 1981, n. 1, pp. 50-52).
Fra il 1819 e il 1820 gli Olivetani procedettero ai restauri della celleraria, della cucina, dei quartieri dell’abate e del vicario generale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore e la vita quotidiana si andò normalizzando secondo i vecchi ritmi fino a rimettervi nel 1818 la clausura se pur limitata prima al monastero e dal 7 maggio 1821, anche quella esterna.
(Sani, Memorie e vicende ms., cit. edito in “l?Ulivo”, XI, 1981, n.2, pp.64-67).


Il nuovo profilo organizzativo.

All’inizio della restaurazione tutte le famiglie benedettine preesistenti alla confisca napoleonica vennero ricostituite in Toscana ma con un numero di cenobi notevolmente ridotto, pari in genere ad un terzo del totale precedente. Gli Olivetani ne ottennero due su tre:
Monte Oliveto Maggiore con l’ospizio di S. Chiara e S. Bartolomeo di Firenze.
Fino alle soppressioni dello Stato italiano del 1860 le abbazie benedettine toscane si mantennero per lo più secondo quanto previsto dalla commissione concordataria del 1815 e a paragone con la situazione degli altri stati italiani, la consistenza organizzativa non solo non appare penalizzante, ma documenta una certa larghezza di concessione del potere politico verso una restaurazione monastica. Di fatto la capacità ricettiva dei cenobi ripristinati restavano sicuramente sovradimensionata rispetto alla quota dei monaci toscani esistenti.
Anche tra gli Olivetani ci furono segnali non meno espressivi dell’insufficiente attaccamento al proprio archicenobio in quegli stessi anni dai generali Giannetti e Ambrosi.
Il Giannetti infatti attorno al 1827 decise di lasciare l’archicenobio di Monte Oliveto e con altri confratelli si trasferì nell’0spizio di Siena, da lui restaurato e provvisto di ottimi arredi, la sua decisione si scontrò tuttavia con la violazione degli ordini di Leopoldo II che in S. Chiara, con rescritto del 18 maggio 1826, aveva proibito la permanenza fissa di qualunque monaco e negata la possibilità di crearvi una nuova famiglia religiosa, come invece gli Olivetani avevano fin dall’inizio sperato. (AMOM, Corrispondenza, cit. lettera del Segretario del regio diritto, Magnani, del 29 maggio 1827 ; anche Sani, Memorie e vicende ms. cit. edito in “l’Ulivo”, XII, 1982, n.3, p.43).
Al noviziato fu legato fin dall’inizio il ristabilimento del convitto-educandato per rinsaldare i legami con i ceti dirigenti e soprattutto propiziare nuove vocazioni. Il governo toscano approvò questo istituto, ma volle anche ribadire che esso era soggetto alla sorveglianza del regio consultore degli studi (AMOM, Corrispondenza dell’I. R. Governo dal 1817 al..Magnani al vicario generale, 3 gennaio 1823, facente seguito al rescritto granducale del 24 dicembre 1822).
Nella Congregazione olivetana l’andamento del convitto fu molto travagliato. La sua prima apertura era avvenuta nel luglio 1802 nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze.
L’abate generale Ambrosi si mostrò poco propenso a difendere l’importanza dell’archicenobio se nel 1821 non esitò ad assecondare il progetto del vicario Giuseppe Coppola di trasferire nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze il noviziato e la maggior parte dei monaci toscani. Per fortuna l’assenza della famiglia monastica e l’incuria amministrativa durò solo alcuni mesi, giacché il generale olivetano cambiò idea e nel 1822 ritornò a Monte Oliveto Maggiore con l’approvazione del piano da parte del granduca.
Sei anni dopo, insieme al noviziato si riportò di nuovo il convitto nel monastero di Firenze.
Circa la consistenza numerica raggiunta dalla Congregazione Olivetana nella prima metà del XIX secolo, essa si arrestò su livelli medio-bassi a causa di un sensibile calo, e da 36 monaci si scese nel 1845 a 21.
La capacità di recupero restò dunque assai limitata, che anzi seguì una nova fase di declino.
L’inchiesta promossa della S. Congregazione sullo stato dei regolari del 1847 ci offre una
panoramica esauriente degli effettivi.
In quell’anno in Toscana esistevano 235 religiosi benedettini; per gli Olivetani dalle Familiarum Tabulae (AMOM,Familiare monasteriorum, 1743-1855) a Monte Oliveto Maggiore, dopo un insufficiente organico negli anni 1830, recuperò in seguito (nel 1845 e nel 1853 la famiglia era di diciotto persone non distinguendo se monaci, conversi, novizi, educandi e servitori secolari).

Vecchie e nuove strategie di reclutamento.

Un fenomeno di ristagno delle professioni monastiche si evidenziò in questo periodo e cioè dal 1828. Certo le limitazioni erano imposte dalle gerarchie romane, con la negazione del diritto alle vestizioni imposta dal luglio 1828 e il febbraio 1831 e di nuovo nel luglio 1843 sotto Leone XII e i visitatori apostolici. Il carteggio intercorso con la Segreteria del regio diritto non solo non presenta per gli olivetani alcun veto all’ingresso nella vita religiosa ma anzi documenta un certo numero di eccezioni per l’ammissione di monaci esteri.
Sicuramente le restituzioni geografiche e l’elevamento dell’età minima per l’ingresso nello stato religioso, avranno selezionato ma non compromesso lo sviluppo delle vocazioni.
Le condizioni di ammissione dei monaci coristi rimasero ancora troppo selettive quanto all’estrazione sociale, al grado di istruzione e alla dote o suoi sostituti. Infatti verso il 1845 gli olivetani dichiaravano che i loro postulanti non provenivano “né dall’aratro né dalle botteghe”, ma che erano ricercati tra quelli “educati, ben nati e sufficientemente comodi per supplire alle spese necessarie, sebbene limitate, per il loro ingresso, professione e vitalizio, ancora troppo ai medesimi necessario.” (Bibl. Marucelliana, Firenze, ms. D;XLVIII. 19, cc.176r-179v).


Il monachesimo del secolo XIX.

Tentativi d’unione delle congregazioni benedettine.

Il ripristino dei conventi e dei monasteri nelle diocesi appena recuperati, fu, nonostante le gravi remore pendenti sulla ricostruzione politico-amministrativa, una delle preoccupazioni prioritarie a cui volle dedicarsi Pio VII.
Nella mente del pontefice questa opera si connetteva strettamente ad un progetto di una “generale riforma” ecclesiastica.
Come c’erano state alcune trattative tra varie congregazioni, analoghe trattative d’unione furono intavolate dal Bellenghi a partire dal 1821 fra camaldolesi e olivetani.
Le posizioni delle parti si chiarirono fin dalle prime battute iniziali. Per evitare che l’operazione figurasse in partenza come la fusione dell’una nell’altra congregazione, si progettò la confluenza di ambedue in una terza denominata “monaci benedettini bianchi” con abito diverso da quelli in uso. Quest’accorgimento non venne tuttavia apprezzato dal vicario generale olivetano Ascanio Giannetti, che addusse contro il Bellenghi una serie di rilievi e di controproposte.
Gli Olivetani non solo non vedevano la necessità di estinguere la loro antica e gloriosa congregazione, ma paventavano che la soppressione delle due congregazioni avrebbe offerto a molti monaci il pretesto di abbandonare la regola o l’abito, e che la nuova sarebbe stata depauperata dei privilegi spirituali e materiali con un colpo di mano dei vescovi e della curia romana. Inoltre il Giannetti credeva opportuno che l’auspicata congregazione olivetano-camaldolese indossasse l’abito olivetano, avesse come proprio archicenobio Monte Oliveto Maggiore e che solo nello stemma e sigillo comparisse il simbolo dei camaldolesi insieme a quello degli olivetani inquadrati col motto “unione fortior”.
Così impostato il disegno d’unione assumeva la forma di un vero e proprio inglobamento
d’un istituto nell’altro. Se si pensa poi che ciascun monaco delle due congregazioni avrebbe dovuto firmare un capitolato d’unione ed esprimere il proprio parere favorevole si può capire il perché anche questa iniziativa fosse votata al fallimento. (cfr. V. Cattana, Il declino della congregazione di Monte Oliveto tra restaurazione e la metà del XIX secolo, in :Il monachesimo italiano, cit.. pp.349-350, 385-388).
La consapevolezza che l’unificazione degli ordini benedettini fosse la “sola tavola di salvezza dal naufragio al corpo monastico”, spinse Leone XII a riesumare verso la fine del 1825 il vecchio progetto del Bellenghi. Ma dopo il completo fallimento delle intese venne la reazione vera e propria nel giugno 1828 col provvedimento di soppressione a tempo indeterminato delle vestizioni e delle professioni nella Congregazione olivetana. Ciò non è difficile collegarlo con i disordini interni, ossia con le accuse del generale Giampè contro il suo predecessore Giannetti (Memorie di un vecchio abate, a cura di R. Donghi, “l’Ulivo”, XIX, 1989.pp.41 e 47) e con le loro opposizioni alle direttive della S. Sede.
La riaffermazione dei principi giurisdizionalisti venne generalmente perseguita con una certa flessibilità, talora agevolando le procedure di vigilanza, come per l’obbligo di celebrare i capitoli generali degli ordini davanti ad un delegato governativo, fu sostituito abbastanza presto con la richiesta di approvazione degli atti. Nel 1845 in via del tutto eccezionale fu inviato un rappresentante al capitolo degli olivetani (AMOM, Corrispondenza, cit., lettera del Bacci, 29 novembre 1846).
Qualche ondeggiamento si ebbe anche sulla proibizione dei religiosi esteri. Alle concessioni graziose del sovrano per alcuni monaci negli anni venti, seguì un irrigidimento negli anni trenta, in concomitanza con le soppressioni degli olivetani nello Stato pontificio, da parte di Gregorio XVI: Infatti la richiesta di accoglienza nel granducato da parte degli olivetani sembrava bene avviata presso il dicastero del regio diritto, ma venne respinta in linea di massima da Leopoldo II il 14 ottobre 1831 (AMOM. Corrispondenza, cit., lettere del Magnani 23 settembre e 29 ottobre 1831).
Una limitata tolleranza venne comunque ammessa nel 1839 verso alcuni olivetani forestieri “perché proseguissero a godere le pensioni loro assegnate dal governo pontificio e a contribuire con queste alla spesa del loro mantenimento (AMOM, Corrispondenza, cit., lettere del segretario del regio diritto del 7 ottobre 1839 e del 5 dicembre 1840).
Allo scopo di prevenire ogni “influenza estera”, che potesse oscurare le prerogative regie sui monasteri toscani, Leopoldo II ribadì nel 1830 al vicario generale degli olivetani che il governo non era disposto ad ammettere alcuna decisione “diretta a modificare in qualsivoglia forma lo stato delle persone e delle cose dei monasteri medesimi” e che le “disposizioni o riforme” eventualmente adottate dallo Zurla non potevano “estendersi né essere attese rispetto ai monasteri esistenti nel granducato se non in quei soli rapporti che direttamente interessino l’osservanza della regola e della disciplina. (AMOM, Corrispondenza, cit., lettera del segretario del regio diritto Magnani, del 31 agosto 1830 in ordine al rescritto del 20 agosto precedente).

Il problema del riassetto “costituzionale” e disciplinare.

I radicali mutamenti subiti dalle articolazioni istituzionali delle Congregazioni benedettine all’indomani dei processi di ricostruzione concordataria imponevano un adeguamento dei loro profili statutari.
Le riforme statutarie elaborate del generale degli Olivetani Giannetti assunsero carattere di semplice adeguamento alla ridotta consistenza organizzativa. Esse furono approvate il 30 gennaio 1827 da Leone XII e per l’esiguità dei monasteri rimasti vennero eliminate le tradizionali “province” sostituite da due grandi raggruppamenti geografici, la “sezione” pontificia e quella “estera”. Per l’elezione alle cariche maggiori rimaneva valida la cosiddetta alternativa, così come il principio della spartizione dei visitatori, da sciegliersi tra gli abati e gli ufficiali di Monte Oliveto Maggiore.
Un nuovo corpo di costituzioni olivetane si comincerà ad elaborare molto lentamente nel clima di rinascita spirituale della Congregazione del tardo ottocento.
Ma intanto l’accentuarsi dei disordini nella Congregazione olivetana avevano costretto la S. Sede a intervenire ripetutamente fino a minacciarne la soppressione.
Una parziale schiarita in questi rapporti, dopo il “fatale decreto” di Leone XII, venne con il voto Pio VIII del 4 maggio 1830, che sanciva la conservazione della congregazione olivetana e di quella Silvestrina con l’affidarne la riforma ad un visitatore apostolico nella persona del cardinale Zurla.
Forse pentiti di non aver accolto qualche anno prima le offerte d’unione dei camaldolesi, i nuovi vertici degli olivetani, il generale Gaspare Giampiè e il vicario Giuseppe Coppola si fecero promotori nell’aprile 1831 di un piano di scambi materiali e morali fra le due congregazioni. Successivamente esso venne adottato in termini notevolmente più favorevoli ai camaldolesi e presentato a Gregorio XVI per l’approvazione ed esecuzione. Ma la reazione del visitatore apostolico Zurla alla S. Congregazione dei vescovi e regolari sull’impossibilità di ripristinare l’osservanza nei monasteri olivetani, tesi aggravata dal Giampiè e dal Coppola con la denuncia dei mali del loro ordine, fece fallire anche questo piano.
Il papa rimise l’affare ad una speciale congregazione cardinalizia, la quale consigliò di chiudere per sempre tutte le case olivetane dello Stato pontificio ad eccezione dell’Ospizio di S. Maria Nuova in Roma; ciò che avvenne col breve del 19 agosto 1831. I beni olivetani furono lasciati a disposizione della S. Sede, ma, subito dopo dietro richiesta di alcuni vescovi, destinati ai camaldolesi: L’operazione assunse agli occhi di molti olivetani il carattere di una vera e propria macchinazione.
Nel 1835 Roma concesse l’apertura di due noviziati, prescrisse il metodo d’educazione dei novizi e l’osservanza della regolare disciplina, ma al tempo stesso sminuì ulteriormente il prestigio degli olivetani con lo stabilire un semplice vicario di sua nomina, in luogo dell’abate generale, con decreto papale del 22 giugno 1835.
Proprio su questo punto dell’autonomia di governo si vennero focalizzando negli anni seguenti i maggiori contrasti: gli olivetani chiesero nel 1839 e nel 1842 la convocazione del capitolo generale prima per procedere loro stessi alla nomina del superiore e poi per attuare alcune modifiche alle costituzioni. Ma la S. Sede, se restituì il grado di abate generale, non stimò conveniente cederne la nomina all’organo costituzionale, per la mancanza di soggetti adatti. Non vennero infatti accolte le dimissioni del vicario Benedetto Bellini, per il sospetto che esse fossero l’effetto di pressioni interne e comunque, dopo la sua morte, si provvide, con altro decreto del 29 maggio 1841, a nominare direttamente il nuovo abate generale il palermitano Giuseppe Patti. Tale nomina avvenne per sopire le difficoltà del governo di Napoli, che in precedenza aveva protestato per l’elezione del Bellini.
La necessità di tenere sotto controllo la situazione disciplinare degli olivetani e la volontà di evitare ogni conflitto, con l’autorità politica spinsero la S. Sede ad avvalersi dell’arcivescovo di Firenze, Ferdinando Minacci. Questi negli anni 1843-1845 si trovò ad esercitare una difficile mediazione tra esigenze contrapposte, da un lato il governo toscano, che sulla base di denunce anonime era venuto a conoscenza di irregolarità morali e amministrative nei monasteri olivetani, dall’altro la curia romana che, ovviamente, ambiva esercitare la legittima autorità sulla vita interna degli ordini religiosi.
Obbligato a servire contemporaneamente due superiori il Minacci per un certo tempo riuscì a comporre le diverse esigenze. Per non turbare gli equilibri politici consigliò la S. Congregazione dei vescovi e regolari, di promuovere una visita “privata” agli olivetani da parte di un religioso toscano di altro ordine, da nominare dall’arcivescovo stesso dietro comunicazione al governo toscano.
Vagliate da una apposita congregazione cardinalizia, le proposte del Minacci, furono sostanzialmente approvate ed estese agli altri monasteri olivetani di Palermo e di Quarto, con la significativa clausola papale, che il breve per i visitatori, sarebbe stato spedito solo dopo che l’arcivescovo avesse riferito della non opposizione del governo toscano. Il decreto di Gregorio XVI è del 28 marzo 1843.
In base agli accordi presi con la S. Sede, il 17 giugno 1843 il Minacci suddelegava alla visita dei monasteri toscani i padri certosini Niccolai Leone e de Pathos Francesco Ferreira.
I risultati della visita, aperta pochi giorni dopo per S. Bartolomeo di Firenze e ai primi di luglio per Monte Oliveto Maggiore, furono del tutto scoraggianti, quanto all’osservanza della disciplina regolare, alle qualità morali dei membri, al loro attaccamento all’istituto.
Da parte sua il Minacci, incaricato dal governo di compiere una visita a Monte Oliveto Maggiore, aveva cercato di ridimensionare la portata delle denunce anonime, ma al tempo stesso, aveva provveduto ad espellere alcuni conversi dal monastero e a ordinare una muta di esercizi spirituali ai monaci da parte dei padri passionisti.
La diversità di orientamenti, di metodi e di finalità che avevano guidato i due visitatori venne emergendo nel settembre 1844. Mentre il visitatore “subdelegato” Niccolai considerava ultimata la sua opera ed era favorevole alla convocazione del capitolo, alla condizione di farlo presiedere da un estraneo e di restringere l’elezione del generale ad una terna di religiosi presentata dal papa, il visitatore “apostolico” e “regio” Minacci era insoddisfatto delle risultanze del Niccolai, perché voleva integrarle con le informative dei parroci e dell’ordinario locale nonché elaborare un nuovo e più radicale piano di riforma basato sull’apertura permanente della visita e sulla trasformazione dell’archicenobio olivetano in monastero di ritiro e di stretta osservanza.
Per allontanare la minaccia di un controllo quotidiano del metropolita fiorentino, i monaci olivetani si rifugiarono sotto la protezione del governo toscano e il 3 settembre 1844 riuscirono ad ottenere una dichiarazione di chiusura della visita apostolica. Il Minacci reagì contro la Segreteria del regio diritto e chiese al granduca di protrarre l’esercizio della sua giurisdizione straordinaria su Monte Oliveto Maggiore al fine di ripristinarvi la disciplina. Leopoldo concesse la proroga fino al novembre successivo, pregando tuttavia l’arcivescovo di concordare con la Segreteria del regio diritto ogni decisione in materia temporale e di disciplina esterna. Poiché alcuni monaci continuavano ad agire presso il governo e a spargere la voce che l’arcivescovo non aveva più alcuna autorità su di loro, la S. Sede, dietro istanza del Minacci, attuò nel febbraio 1845 un ulteriore giro di vite ordinando che la visita continuasse, che i monaci olivetani riconoscessero il visitatore apostolico come loro superiore delegato dalla Sede Apostolica, che essi gli ubbidissero sotto pena di sospensione a divinis e che fossero di nuovo proibite a tempo indeterminato vestizioni e professioni (Decreti del 20 settembre 1844 e del 21 febbraio 1845).
La commissione cardinalizia chiamata ad esprimersi nel giugno 1845 sulla situazione olivetana, continuando lo stato d’insubordinazione disciplinare, invocò “un provvedimento radicale ed efficace”. Ma la pressione romana aveva già toccato la punta massima.
Scartato da tempo un provvedimento di soppressione, non rimaneva che affidare i resti della prestigiosa congregazione al governo di quel manipolo di monaci che con libera scelta si erano riuniti nel monastero di Quarto per vivere la regola in piena osservanza.
Il 17 novembre 1845 Gregorio XVI accordò finalmente – se pure sotto la presidenza del vescovo Ciofi di Chiusi e Pienza – la convocazione del capitolo dell’ordine, da cui uscì generale un esponente del gruppo “osservante”, l’abate Ignazio Dinegro.
I monasteri olivetani erano ridotti a quattro (i due toscani, quello di Quarto e di Palermo) con l’ospizio di S. Maria Nova di Roma (che però sarà reintegrato di lì a poco al rango di monastero da Pio IX).




L’inchiesta di Pio IX e la riforma degli ordini religiosi.

La premura di Pio IX per il rinnovamento della vita religiosa si estrinsecò sostanzialmente nella creazione, il 7 ottobre 1846 d’una speciale congregazione “De Statu regularium ordinum” e nell’accurata vigilanza sulla vita dei vari istituti, con particolare attenzione alla scelta dei superiori generali.
Punti di riferimento essenziali delle attività del nuovo organismo furono la Relazione del Bizzarri dei primi mesi del 1846 che costituì il manifesto della riforma da intraprendere e l’inchiesta statistica conoscitiva e consultiva con la collaborazione non solo dei superiori generali ma anche dei vescovi.
Le risposte dei superiori riflettevano una situazione tutt’altro che esaltante, perché non solo il principio fondamentale della vita comune veniva più o meno apertamente vulnerato ma si era lontani da volerlo praticare nell’immediato futuro.
In sostanza, le risposte dei superiori al questionario della congregazione papale confermavano la maggior parte degli elementi negativi diagnosticati per i vecchi ordini dalla “Relazione” del Bizzarri: inosservanza del voto di povertà nella quasi totalità dei monasteri, scarsa formazione dei novizi, affievolimento nell’osservanza della regola e delle costituzioni, inapplicabilità e obsolescenza di molte norme statutarie.
Pio IX non ebbe alcun dubbio sulla necessità d’iniziare la riforma a partire dai criteri di ammissione al noviziato: Con due decreti del 25 gennaio 1848, vennero introdotti a somiglianza di quanto avveniva già per il clero secolare una serie di controlli da parte dei vescovi sui candidati al noviziato e da parte di un duplice corpo di esaminatori della provincia e del generalato dell’ordine sui candidati alla professione.
Il primo decreto introduceva, per i candidati alla vita religiosa, l’obbligo di presentare le lettere testimoniali degli ordinari della diocesi di origine e di quelle ove fossero vissuti almeno un anno dopo il quindicesimo. Pio IX fece appello anche alla sua suprema autorità per introdurre in tutti gli ordini un periodo triennale di prova prima della professione solenne, con facoltà dei superiori generali di protrarlo fino a venticinquesimo anno.
Tra le misure varate con la circolare della Congregazione dei vescovi e regolari del 12 aprile 1851: il ristabilimento della legge del deposito comune in tutti i conventi, con la revoca di ogni eccezione ammessa prima, al divieto dei religiosi di usare il loro peculio; l’immediata introduzione della vita comune nei conventi di noviziato e la prescrizione della perfetta osservanza delle rispettive costituzioni nei conventi di studio, questi furono gli elementi innovativi che indicavano a sufficienza il significato della svolta voluta da Pio IX per gli ordini religiosi, dopo che le dispersioni napoleoniche avevano modificato e per un certo verso semplificato i termini di molte questioni e dibattiti secolari.




Modelli di razionalizzazione statuale del clero regolare.

Le premesse culturali e politiche della prima ondata di soppressioni, quella dei piccoli conventi, da parte degli Stati italiani tra il 1768 e il 1772 vennero dalla Francia. Ne sono prova
la traduzione di opere prevalentemente ispirate dalla Commission des réguliers e la catena di provvedimenti di abolizione in concomitanza con l’esempio francese del marzo 1768: Modena nel luglio-agosto, Venezia nel settembre, ducato di Milano alla fine del 1768, Parma nel febbraio 1769, Regno di Napoli tra il dicembre 1768 e l’agosto 1772, Regno di Sardegna tra il 1768 e il 1774, Ducato di Mantova tra settembre 1771 e i primi del 1772.
Nella Toscana lorenese la riforma dei regolari ebbe al pari di molte impegnative riforme una complessa incubazione e uno sviluppo poco lineare per ragioni di politica interna e per ragioni di carattere monastico, come l’allineamento alla politica di Giuseppe II.
E’ certo che per la sua natura costitutiva la Congregazione Olivetana, subì danni più gravi perché si volle con le soppressioni recidere i rapporti anche finanziari dei monasteri con la casa generalizia mediante l’istituzione di casse nazionali (locali) e subordinare in tutto i religiosi ai rispettivi ordinari diocesani salvo che per le regole claustrali e per quelli di Lombardia, obbligare i novizi a compiere i loro studi universitari a Pavia.
Anche in Toscana Pietro Leopoldo e Scipione de’ Ricci avevano maturato la convinzione della necessità di rescindere i vincoli di dipendenza tra i conventi della medesima provincia e quelli tra i conventi, la curia generalizia e la curia romana.
Il granduca nel determinare le soppressione preferì adottare come abbiamo visto, una linea graduale e pragmatica piuttosto che applicare misure improvvise e piani sommari. Nella maggior parte dei casi furono colpiti solo quei conventi che disponevano di risorse insufficienti e che presentavano una famiglia alquanto inferiore al numero canonico.
In Toscana l’interesse prioritario fu quello di riorganizzare le istituzioni pastorali e una parte non indifferente del patrimonio monastico rimase in seno alle diverse congregazioni, volendo operare una razionalizzazione della loro fisionomia istituzionale attribuendo compiti socialmente utili, talora rilevanti e quindi il riconoscimento da parte del governo delle funzioni sociali e religiose del movimento monastico.
Il momento traumatico fu certo rinviato alle soppressioni napoleoniche che attueranno una pressoché completa eversione del patrimonio ecclesiastico-regolare, ma soprattutto, sottrarranno ogni motivo di legittimità o di plausibilità statuale alla vita contemplativa.

Trasformazioni costituzionali e identità monastica.

La scelta di una forma organizzativa di tipo centralizzato comportò una diversa incidenza per gli ordini monastici. In essi, il passaggio al modello congregazionale significò la negazione del tradizionale carattere autocefalo delle abbazie e la sostanziale trasformazione dei capisaldi istituzionali dell’esperienza monastica precedente, quali:
- il regime vitalizio dell’abbaziato,
- l’elezione diretta da parte dei monaci del loro padre
- il voto di stabilità dei professi
- il principio dell’autonomia giuridica, religiosa ed economica della singola abbazia
Il modello di S. Giustina se fu una risposta alla crisi del monachesimo in età tardo-medievale fondata ed elaborata sull’esperienza religiosa del Barbo, fu storicamente un’imitazione e una sostituzione, inizialmente anche di luogo, dell’impostazione collaudata da quasi un secolo degli Olivetani, con la differenza che gli Olivetani erano congregati “in Unum corpus” mentre i monasteri nei confronti di S. Giustina venivano confederati soltanto.
La riforma congregazionale veniva ritenuta poco funzionale sia alla politica clientelare dei principi che agli interessi economici di certi settori della nobiltà e della cittadinanza. Si manifestava una certa riluttanza delle autorità civili a consentire l’aggregazione di monasteri situati nel proprio territorio a congregazioni estranee.
Allo stesso modo ai vertici delle congregazioni l’avvicendamento prima annuale poi triennale dell’abate generale e dei definitori era divenuto nel corso del seicento occasione pressoché continua di contesa e di antagonismo tra nazione e nazione, anche se per gli olivetani si attuò un patteggia- mento basato su regole “politiche” di turnazione e di scambio.
Un certo indebolimento del sistema congregazionale va ricercato tra fine settecento e inizi ottocento, come abbiamo già notato, nell’accentuata interferenza degli Stati, la maggioranza dei quali richiese il requisito di nazionalità nelle elezioni degli abati locali e generali, impose controlli sulla celebrazione dei capitoli generali e soprattutto attuò la separazione dei conventi nel loro territorio dalla dipendenza dei superiori generali o dal resto dell’Ordine.
La sostanziale paralisi in cui venne a trovarsi nel corso dell’ottocento il sistema congregazionale e la convinzione di alcuni iniziatori della rinascita benedettina transalpina, come il Guéranger e il Wolter, che una nuova fioritura benedettina fosse inscindibile dalla riscoperta della ‘stabilitas loci’ del monaco, intesa come regime permanente e quadro materiale di vita in mezzo al quale attualizzare il senso dell’esclusiva appartenenza a Cristo, condussero al recupero dell’altro correlativo principio, quello della “paternità spirituale”dell’abate e del carattere vitalizio del suo ufficio. (cfr. Bedonelle G. Paris, Ed. du Cerf. 1991, pp.207-215. Salmon, L’abbé dans la tradition monastique, cit. pp.140-142).

Il nuovo regime di governo presso gli Olivetani.

Presso gli Olivetani il nuovo regime di governo venne adottato nel 1886, al termine di trentasei anni di discussioni sulla magna quaestio della riforma delle Costituzioni. (cfr. O. Donatelli, Le costituzioni olivetane del 1886 e il contributo dei due Schiaffino, in Placido Maria Schiaffino (1829-1889) monaco e cardinale- Atti del X incontro di Monte Oliveto 22-23 settembre 1989, Siena, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, 1991, pp.76-98).
Due tendenze opposte si confrontarono e resero incerto l’esito fino all’ultimo: quella maggioritaria, capeggiata dal restauratore dell’osservanza Giovanni Schiaffino, che voleva rispettare il corpo degli statuti precedenti e non intendeva “profanare” una consolidata tradizione olivetana, l’altra minoritaria, promossa dal generale Placido Schiaffino che sotto l’influsso delle esperienze di Solesmes e di Beuron, avvertiva la necessità di porre alla base della ricostruzione normativa la regola.
Se storicamente avviciniamo i più influenti riformatori della vita monastica nell’ottocento e cioè il Guéranger per Maredsous anno 1872 e i fratelli Wolter Mauro e Wolter Placido per Beuron nel 1863, scopriamo che furono personaggi estranei per formazione alla tradizione monastica o avevano un limitato bagaglio di conoscenze e di esperienza benedettine.
Se Guéramger operò in una situazione di piena libertà dal potere politico, i due fratelli Wolter rimasero sotto la protezione della nobiltà e dello stesso imperatore.
L’influsso che i Wolter esercitarono su Placido Schiaffino fu determinante per la Congregazione Olivetana. La convergenza verso una comune base culturale e spirituale ebbe un’importanza decisiva che rafforzò la loro iniziativa individuale. Vollero ridefinire l’identità distintiva dell’ordine benedettino in termini di una radicale presa di distanza dall’esperienza congregazionale e di un forte recupero di quello che si riteneva l’ideale monastico “originario” identificato con il modello benedettino del XII secolo.
Ma questa scelta portò ad una contraddizione. Venne elaborata una dottrina monastica che si avvaleva al tempo stesso di elementi tradizionali e originali, in cui prevaleva nettamente un’ecclesiologia medievale sulla spiritualità tridentina, le forme organizzative di tipo paternalistico ed autocefalo su quelle rappresentative, l’orientamento di vita contemplativa su quella attiva degli altri ordini, la celebrazione liturgica sulle attività caritative.
E’ certo che anche la convinzione della curia romana, subordinava il significato della vita contemplativa degli ordini religiosi ai compiti di carattere pastorale ed educativo.
Lo scarto evidente tra le direzioni strategiche intraprese dai vertici ecclesiastici e l’aspetto costitutivo della propria identità contemplativa, portava a privilegiare gli Ordini di vita “mista”, sia perché tale era lo spirito”del secolo presente” e anche perché lo spirito di contemplazione e di fervore si era illanguidito.
Concludendo, dalla seconda metà dell’ottocento sarebbero superate le ragioni di un condizionamento, proveniente dalla divisione politica in stati regionali, ma la realtà di uno stato unitario e accentrato avrebbe favorito anche il pieno e libero esercizio di una Congregazione centralizzata.