mercoledì 28 aprile 2010

La Congregazione Benedettina Olivetana tra ragioni di Chiesa e ragioni di Stato Gli Olivetani in toscana XVI – XIX sec.)

L’ordinamento benedettino olivetano e le sue trasformazioni nell’età moderna.

Le modificazioni costituzionali.

L’ordinamento monastico olivetano era impostato su tre fattori determinanti:
1) la temporaneità delle cariche,
2) la centralizzazione del governo,
3) la suddivisione territoriale.
La forte struttura di governo centrale era già in grado di esercitare un controllo periodico sui singoli cenobi e d’altra parte sotto il profilo giuridico i diversi monasteri accrescevano i legami e gli scambi tra loro, rendendo praticabile un’effettiva mobilità dei monaci.
Era così allontanato dalle abbazie olivetane il pericolo del regime commendatario.
Nel modello congregazionale la figura abbaziale perse quel tratto sacrale-carismatico e di fonte d’autorità per il monastero, che le aveva attribuito il Medioevo.
Con l’introduzione del metodo democratico per il quale era il corpo dei monaci che partecipava al governo mediante il capitolo e la carica dell’abate fu trasformata in un ufficio con poteri più ampi ma della stessa natura degli altri, con funzioni delegategli ad tempus dal capitolo generale e sostanzialmente ristrette alla tutela della disciplina interna e alla vigilanza amministrativa.
Circa la durata, l’ordinamento olivetano fin dai primordi della sua costituzione aveva adottato il criterio dell’avvicendamento annuale della carica abbaziale, ordinamento certamente imprestato anche dai sistemi giuridici degli enti pubblici senesi e ordinato dall’autorità ecclesiastica come la Bolla “Summi magistri” di Benedetto XII del 1336, circa l’imposizione di celebrare almeno di triennio in triennio il Capitolo Generale.
Questo era stato sempre in vigore antecedentemente presso gli Olivetani, e gli abati generali e gli abati locali si alternarono in seguito prima ogni quattro anni, dal 1501 ogni due, dal 1572 di nuovo ogni quattro e dal 1587 fu stabilito un avvicendamento triennale.
Anche la riforma di Santa Giustina non fece che seguire con evidenza la struttura dell’organizzazione della Congregazione Olivetana.
Infatti la Costituzione di Eugenio IV “Etsi ex sollicitudinibus debito..” dell’ottobre-novembre 1432 fissava la struttura definitiva in questo modo:
1) i monaci formavano un solo corpo, che al di là della diversità dei luoghi di professione, era rappresentato nelle sue componenti dal capitolo generale e guidato da un definitorio cui spettava tanto il supremo potere legislativo e amministrativo quanto la pienezza delle competenze sugli aspetti liturgici, religiosi,disciplinari;
2) tutti i superiori erano nominati dal capitolo generale e rimanevano in carica fino alla sua rinnovazione, mentre l’esercizio dell’abbaziato e del priorato diveniva annuale.
Anche a Santa Giustina ogni monastero era generato dall’archicenobio, dipendeva permanentemente da esso, ne riceveva le direttive e la nomina dei superiori, ma la gran differenza consisteva che i monasteri erano tra di loro ‘confederati’, mentre i monasteri olivetani formavano un’unicum corpus’ come delle membra unite al capo, e a questo soggetti, cioè erano tra loro ‘congregati’.

Evoluzione costituzionale ?

Quali furono gli interventi della curia romana sull’organizzazione monastica olivetana?

Qual è l’interpretazione storico-genetica dei fondamenti giuridici e degli sviluppi organizzativi della famiglia benedettina?
Che la plurisecolare organizzazione benedettina fosse basata su tre pilastri fondamentali:
1) l’autonomia giurisdizionale e amministrativa di ciascun abbazia e il conseguente diritto delle rispettive comunità di eleggere il proprio abate,
2) la durata vitalizia e l’autorità assoluta della carica abbaziale,
3) la stabilitas loci per la quale ciascun monaco professava per il proprio monastero,
questi erano gli elementi che formavano la combinazione dell’ordinamento monastico tradizionale.
Per i monaci di Monte Oliveto l’accentramento dei poteri nel capitolo generale e quindi nel Definitorio non poteva avvenire in presenza del regime vitalizio dell’abbaziato, mentre la limitazione dell’autorità dell’abate aveva bisogno dì essere compensata da una forte struttura di governo centrale in grado di esercitare un controllo periodico sui singoli monasteri.
Le costituzioni olivetane del 1572 non attribuivano al “Banchetto”, poi dal 1627 chiamato “Definitorio”, il potere di assegnare le nuove famiglie, rieleggere i vicari, i cellerari e i maestri dei novizi, ma al capitolo generale annuale. Al capitolo generale biennale se n'alternava uno annuale riservato agli aventi voce, ai visitatori e al procuratore generale.
E’ vero che lungo il tempo si manifestò una tendenza a restringere il sistema rappresentativo dei partecipanti.
Il primo tentativo di radiare la categoria dei discreti fu promosso dall’Abate Generale Antonio Bentivoglio nel 1539 e fallì per la forte resistenza dei monaci. Nelle costituzioni del 1564-68 fu inserito nelle costituzioni la misura limitativa che escludeva dal massimo organo rappresentativo i monaci sprovvisti dell’ordine sacerdotale.
Lungo il tempo comunque il consolidarsi di una struttura tipicamente verticistica fu ulteriormente favorito sia dai mutamenti di composizione del capitolo annuale sia dalla sua sostituzione con l’organo ristretto della “Dieta”.
In un periodo intermedio infatti il cardinale protettore degli Olivetani Paolo Camillo Sfrondati ritenne opportuno nel 1603 restringere il diritto di partecipazione al capitolo annuale all’abate generale, al suo vicario e ai visitatori.(cfr. Tagliabue)
Ma la norma che prevedeva la partecipazione dei “discreti” al capitolo come rappresentanti delle comunità conventuali fu finalmente inclusa nel progetto di riforma elettorale voluto dall’abate generale Giustino Roselli nel 1705, ma fu inspiegabilmente cassata al momento della ratifica presso la competente congregazione romana.

Suddivisione interna e raggruppamenti geografici. . = ===================================

L’aspirazione a valorizzare le cariche e lo stesso status monastico sul piano meramente onorifico inizia tra gli Olivetani con l’attribuzione, nel 1535 del titolo di abate, fino allora riservato al solo superiore dell’abbazia madre, ai priori dei singoli monasteri e l’abbandono, nelle costituzioni di dieci anni dopo, 1545, dell’umile appellativo di “frate” per quello di “don” per i monaci sacerdoti, con la conseguente riserva del “fra” precedentemente usato in maniera indistinta per tutti gli olivetani, ai soli conversi.
Il processo di suddivisione territoriale raggiunse il culmine nella congregazione olivetana in parallelo con il suo notevole incremento.
Nel 1535 la congregazione fu divisa nelle due sezioni, cismontana e oltremontana, per distribuire alternativamente l’onore del generale e per variare il territorio soggetto alla giurisdizione dei visitatori rispetto alla regione di provenienza.
Nel 1556, oltre a mantenere l’alternativa circa l’elezione del generale e dei visitatori, furono introdotte sei province e assegnato l’ordine del rispettivo turno generalizio.
Nella congregazione olivetana si dette ulteriore sviluppo con una ripartizione ulteriore, interna alla ‘provincia’, chiamata ‘nazione’.
Nelle costituzioni del 1564-68 la prima denominazione fu usata per indicare l’aggregazione di un discreto numero di monasteri (fino a dodici) accomunati dall’appartenenza alla stessa regione geografica o sottoposti ad un unico potere politico, mentre la seconda fu attribuita a pochi o singoli monasteri situati in città prestigiose e importanti.
La nuova suddivisione in ‘nazioni’, di lì a pochi anni, veniva applicata in modo uniforme e sistematico alle diverse province, per cui ciascuna circoscrizione minore o ‘nazione’ era formata da uno o più monasteri e prendeva nome dalla città ove era situato il monastero principale.
L’introduzione delle “nazioni” monastiche, che all’inizio avvenne in via consuetudinaria, può far intravedere non solo un riflesso di diffuse tendenze sociali e culturali del tempo, ma anche il tentativo di rispondere all’esigenza maturata dal basso, di una maggior giustizia distributiva delle cariche o delle prelature. D’ora in poi per l’elezione del generale e delle altre cariche centrali, si cominciò a seguire il turno delle rispettive “nazioni” nel rispetto della regola dell’alternanza fra i raggruppamenti. Per cui il principio che regolava la distribuzione delle prelature si applicava in base ad un criterio, non più indiscriminato, ma provinciale o secondo le “nationes”. La rappresentanza territoriale dalla metà del cinquecento non rimase confinata nel terreno meramente elettorale, ma divenne un fattore di trasformazione dell’intera organizzazione olivetana.
In pratica ogni “natio” doveva avere i suoi abati, questi nell’elezione del loro ufficio non potevano valicare le barriere della “natio” d’appartenenza (cfr. Tagliabue, Gli abati di San Bartolomeo di Rovigo, p.67) e queste limitazioni di movimento condussero gradualmente ad una restrizione progressiva dell’area di circolazione dei superiori, dall’intera rete delle comunità, come invece avveniva nei primi secoli nell’ordine olivetano.
E’ certo che anche il potere politico accoglieva favorevolmente questa tendenza particolaristica e mal sopportava la presenza e l’azione di superiori stranieri sul proprio territorio, ma aveva evidenti risvolti negativi di carattere interno, perché ostacolava il ricambio del ceto dirigente monastico.
L’inamovibilità extraterritoriale degli abati ebbe conseguenze rilevanti anche sul loro profilo giuridico. Dovendosi contemperare col principio della temporaneità delle cariche, essa costrinse gli abati ad una rotazione pressoché automatica dell’esercizio della prelatura nei monasteri di una determinata “nazione.”
L’altro risvolto negativo di carattere interno era la difficoltà di osservare l’avvicendamento ciclico che teoricamente doveva avvenire con cadenza triennale, e spesso di fatto veniva protratto oltre tale termine, perché risultava impossibile realizzarlo, non esistendo altri cenobi.
In questi monasteri, tra la metà del seicento e la fine del settecento venne reintrodotto di fatto il regime della perpetuità abbaziale, come per esempio a Venezia, Lendinara, Rovigo, Arezzo, San Gimignano, Volterra, Lucca e Pistoia.
Questa suddivisione, resa definitiva dalle costituzioni del 1572, verrà riformata solo nel 1785, quando le soppressioni asburgiche e la crescita dei monasteri nel territorio genovese porteranno alla creazione della nuova provincia ‘ligure-lombarda’ (cfr. Scarpini, I monaci..pp.405-406).
In riferimento alla crescente esigenza di rappresentanza delle nazioni per avere degli abati propri, le costituzioni olivetane del 1568 avevano ovviato stabilendo che ciascuna circoscrizione dovesse avere tanti monaci quanti i propri monasteri ne potevano mantenere, tanti prelati quanti erano i monasteri, tanti ufficiali quanti competevano.
Ma presto le deroghe si accumularono. Nella dieta di Bologna del 1592 fu stabilito che il generale potesse destinare gli abati a suo piacimento da ciascuna provincia o nazione, in modo da evitare che alcune abbondassero di abati, mentre altre ne fossero prive.
L’anno seguente, il cardinale protettore Sfrondati sollecitò un breve da Clemente VIII per rafforzare il principio che ogni monastero o casa apparteneva alla Congregazione e non a qualche particolare circoscrizione interna. Infine sempre per evitare che il numero dei monaci in grado di conseguire la prelatura abbaziale diventasse eccessivo rispetto ai posti effettivamente disponibili, lo stesso cardinale Sfrondati fu costretto a emettere nel 1611 un decreto col quale si confermava che “tot essent abbates quot monasteria” e che i superiori più giovani non fossero investiti della prelatura finché il posto non vacasse effettivamente. (cfr. Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars prima, pp.175-177).
Probabilmente il particolare impegno che durante la prima metà del seicento venne profuso dalle singole “nazioni” olivetane per la fondazione di piccoli cenobi, in genere sprovvisti di membri e di rendite, non va ricondotto soltanto alle strategie insediative della congregazione, ma anche alla volontà di accrescere il numero delle cariche residenziali.
A spingere verso l’acquisto delle prelature concorrevano certamente diversi motivi fortemente sentiti nella società seicentesca: da quello onorifico a quello della legittimazione nobiliare, che il titolo apportava alla famiglia, da quello delle gratificazioni economiche connesse alla carica, a quello dei privilegi e delle esenzioni dal servizio monastico.
In diverse occasioni i pontefici intervennero per contenere lo spirito di ambizione dei monaci.
Un primo tentativo di ricondurre la concessione delle prelature titolari sotto il controllo della congregazione e di farne un’equa ripartizione tra le circoscrizioni territoriali fu esperito nel 1671.
Sfruttando le buone disposizioni di Clemente X verso gli Olivetani, il generale Pepoli da un lato fece ribadire la condanna della piaga dell’ambizione, escludendo dalle dignità coloro che se le procuravano mediante maneggi, dall’altro chiese, con un secondo breve, una mitigazione del divieto assoluto di nominare abati titolari con la creazione di dodici cariche da assegnare ai benemeriti di ciascuna “provincia”(mentre Urbano VII con breve del 6 gennaio 1627 aveva assolutamente vietato la nomina di abati titolari; cfr. Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars seconda, p.189).
Per offrire ai monaci un ulteriore sbocco alla domanda di avanzamento, il Pepoli, di pari passo, ottenne da Clemente X il riconoscimento dell’alternativa abbaziale e cioè della possibilità che l’abate di governo accossentisse al alternare ‘ad tempus’ l’ufficio con qualche monaco sprovvisto del titolo, ma non dei requisiti sostanziali per il suo esercizio.
Ma la reazione di coloro che si trovavano già in possesso delle cariche titolari costrinse il Pepoli prima a sollecitare un terzo breve papale per imporre regole di contenimento al nuovo istituto giuridico e poi nel 1672 a chiedere addirittura al pontefice di rinunciare ai precedenti brevi circa la creazione di abati titolari e delle alternative abbaziali.
I vertici olivetani furono costantemente contrastati tra le forti aspirazioni d’avanzamento e di carriera dei monaci, le pressioni interne ed esterne di personaggi influenti e l’esigenza di procedere ad un riassetto morale e disciplinare.




Contesto culturale e sociale.
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Narrano gli storici ufficiali della Congregazione Olivetana, come il generale Pueroni, tra il secondo e il terzo decennio del seicento, si fabbricasse una lussuosa residenza a Monte Oliveto dove mangiava e beveva lautamente “dal meglio che entrava dalle possessioni e altrove lasciando passare gli avanzi ai monaci da basso” (dal Palazzo al refettorio comune).
Dopo la mensa si ascoltavano musiche e suoni da novicordo e si giocava a sbaraglino e al trucco. Per ricreare l’animo del generale non mancavano poi diversi “cagnolini bolognesi di gran prezzo. All’archicenobio, insomma, tutto spirava pompa ed albagia”.
Che questo genere di vita non fosse avvertito in contrasto con gli ideali monastici sembra indicarlo il titolo della voluminosa opera a cui nell’otium potè attendere il Pueroni con l’aiuto di diversi collaboratori :”De regularium aristocratia” (cfr. Lancellotti p.229: pubblicato in 4 volumi nel 1633).
Anche gli olivetani assorbirono dei modelli culturali in riferimento all’estrazione sociale e alla provenienza generalmente nobiliare dei monaci e decisero nel 1711 di ammettere nella congregazione “quei soli vestiendi in cui concorrano, per quanto sia possibile e nobiltà di nascita e buoni talenti e sufficiente letteratura(cfr. Tagliabue, Gli abati di San Bartolomeo di Rovigo, cit., p.69, nota 22).
E’ certo che il reclutamento aristocratico dei monaci di coro rispose, almeno in parte, alla necessità della congregazione monastica di soddisfare gli obblighi fiscali di cui era stata gravata dalla S. Sede, a partire dalla metà del cinquecento.
Per alleggerire i pesi imposti dalla Camera apostolica si cominciarono ad accettare di preferenza novizi di ricca condizione, a cui la famiglia potesse passare una certa pensione annua, per il loro mantenimento, pensione che venne versata bensì nelle mani del depositario, per salvare la sostanza del voto di povertà, ma in qualche modo rimaneva sempre a disposizione del monaco.

La pressione fiscale di Roma.
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Tra il 1630 e il 1680 le casse centrali delle congregazioni monastiche italiane si trovarono esposte ad una difficile congiuntura determinata da molteplici fattori.
La maggior parte dei monasteri aveva diminuito in maniera consistente la propria rendita netta a causa delle frequenti vicende belliche, dei cicli stagionali sfavorevoli, delle conseguenze della peste, della cattiva amministrazione dei beni.
Anche la congregazione olivetana fu caricata da parte della S. Sede d’un esoso peso fiscale che l’aveva costretta negli anni precedenti ad accumulare debiti su debiti. Oltre a sopportare pagamenti di decime, di annate, di quindenni dovette sopportare pesantissime contribuzioni per le guerre contro il Turco e per altri bisogni materiali della Chiesa, compresi quelli del suo apparato statale.
L’8 novembre 1539 con un breve Paolo III da Roma ‘dichiarava esente la Congregazione Olivetana dal pagamento di 500 scudi d’oro’ (Reg. Oliv.: III,n.48).
Ma con il 1543Paolo III imponeva al clero secolare e agli ordini religiosi possidenti d’Italia una tassa di trecentomila scudi d’oro, iniziando in modo deciso la fiscalità romana, gravando tutti i monasteri del quarto delle loro rendite. (cfr. Margarini, Bullarium Cassinese, cit. I, p.164, cost.165).
Un’altra dichiarazione per un condono di 500 scudi d’oro è concessa da Paolo III (Reg. Oliv. III,50), così il 9 gennaio 1547 Guido Ascanio Sforza da Roma attesta il pagamento di 3.000 ducati d’oro da parte della congregazione olivetana, compresi 100 scudi d’oro versati dal monastero di San Benedetto di Siena (Reg. Oliv..III,68).
Il generale olivetano Giovanni Francesco di Perugia (1572-1576) promosse un’ispezione in tutti i monasteri, condotta da tre abati di fiducia, per ripartire le tasse da parte dell’Ordine e della Camera Apostolica. (Lancellotti, Istoria olivetana dei suoi tempi, cit. pp.201-202).

Il Procuratore Generale

Sappiamo che le Costituzioni olivetane prevedevano che il Procuratore generale fosse eletto dal Definitorio tra due monaci proposti dall’abate generale. Doveva essere professo da quindici anni: “vir industrius, bonis moribus, et litteris praeditus”(Besozzi, Constitutiones olivetanae, cit. pars prima, p.125).
Per rimediare al meglio l’incapacità di assolvere i pagamenti alla procura generale nella Congregazione olivetana si escogitarono diversi mezzi tra cui l’accumulo in vita per attività d’insegnamento nel 1637 o la sospensione dell’effettuazione di visite canoniche di quattro
province periferiche come Lombardia, Veneto, Romagna, Regno nel 1685 o la sospensione della celebrazione del capitolo generale come avvenne nel 1687, per aver così la disponibilità per pagare più facilmente le decime imposte per la guerra contro il Turco (AA.PP. IV, f. 338 ss.).
Alcune province olivetane reagirono con uno spirito di muta assistenza allorché furono poste di fronte alle gravi strettezze finanziarie dei monasteri veneti, come nel 1684, quando i cenobi napoletani anticiparono la somma addizionale di trecento scudi, ricaduta sulle altre province italiane a causa della crisi veneta. Si arriva così a Benedetto XIV, che rinunziando a crediti difficilmente esigibili concesse nel 1742 l’affrancazione dell’imposizione del 1571 e con questa inversione di tendenza, si ebbe una stagione politica ed economica più tranquilla, eliminando un grave condizionamento alla vita economica di molti monasteri.
Uno sguardo sull’apporto determinante avuto dall’azione razionalizzatrice messa in atto dal papato e dagli interventi e preoccupazioni degli stati regionali nella fase del loro consolidamento può essere utile per comprendere il processo di strutturazione anche della Congregazione monastica olivetana fra quattro e cinquecento e i mutamenti avvenuti tra la prima metà del cinquecento e quella del seicento.
L’intreccio tra potere politico e religioso in Toscana fu forte, soprattutto per il fatto che la casa Medici ha ricoperto per ben tre volte la suprema carica ecclesiastica, mantenendo per due secoli un peso considerevole nella curia romana.
La Congregazione olivetana tra il cinque e seicento, per il suo carattere accentrato e per la mobilità interna riuscì a mantenersi un organismo unitario, adattandosi con la divisione in province alle pieghe geografiche delle varie realtà statuali.
Tra la fine del cinquecento e il primo trentennio del seicento furono promossi tentativi d’unione spontanea con la Congregazione Olivetana: sia da parte dei Verginiani (1580-1584 e 1629: ambedue falliti), da parte dei corpocristiani (1582 e riuscito), sia da parte dei camaldolesi (1637 e fallito).
La prima occasione si era già presentata nel 1595, quando un ex olivetano, Giovanni Battista da Prato, divenuto maggiore degli eremiti di Camaldoli, prima aveva preteso di riformare il breviario fino ad allora usato sostituendolo con quello olivetano, poi passato a Montecorona aveva lavorato per una nuova unione fra i due eremi, intervenendo sull’arcivescovo di Milano Federigo Borromeo, nominato visitatore apostolico. Un mese prima che questi giungesse a Camaldoli Ferdinando I gli aveva scritto una lettera degna della sua larga esperienza curiale, per metterlo al corrente dei motivi precipuamente politici che rendevano inopportuno e dannoso questo miscuglio di unione con i coronasi

Organizzazione monastica e riforma Innocenziana.


La presenza benedettina in Toscana viene caratterizzata da due elementi:
1) l’esclusività degli antichi ordini rispetto alle diramazioni moderne e riformatrici,
2) la netta predominanza degli ordini autoctoni con la ricca eredità medievale come quello degli Olivetani, eredità rinforzata dai forti vincoli di filiazione tra l’abbazia madre e quelle dipendenti.

La consistenza organizzativa.

Il territorio granducale vedeva operativi tra le dieci formazioni benedettine maschili
undici monasteri di monaci olivetani e rispetto alla fisionomia complessiva della Congregazione olivetana in Toscana gravitava circa un quinto dei cenobi olivetani (e cioè 16 su 81).
Fra le novità gli olivetani vantavano la fondazione nel 1639 del monastero di S. Maria Assunta a Rapolano e una cura del patrimonio artistico dei loro monasteri non inferiore a quella dei cassinesi.
Furono infatti eseguiti considerevoli abbellimenti a Monte Oliveto Maggiore, voluti da diversi abati generali, era stato anche restaurato il monastero di San Benedetto di Siena, “rimodernata in parte” la chiesa di s. Girolamo di Agnano in diocesi di Pisa e da poco avevano proceduto ad una vasta opera decorativa della chiesa di San Benedetto di Pistoia.(ASV. S.Congregatio super statu regularium, Relations,n.35, cc.62,74,83,103).
Il confronto tra le entrate e le uscite dichiarate era per gli olivetani espresso con un avanzo di 5766 scudi romani, una situazione in attivo a differenza di numerosi monasteri di altre formazioni monastiche, che avevano una situazione tutt’altro che buona soprattutto per l’enorme peso fiscale della curia romana.
Il numero degli Olivetani nel 1650 era di 133 monaci in Toscana e in prevalenza Sacerdoti coristi e in una quota percentuale più alta di altre istituzioni e specificamente 75 su un totale di 133 pari al 56,4% e quindi il numero dei monaci avviati agli ordini sacri toccava la punta massima insieme ai camaldolesi.

I rapporti con la società e con la chiesa locale.

L’azione degli Olivetani era andata evolvendo verso le direttrici comuni ad altre congregazioni monastiche, cioè il carico del ministero delle proprie parrocchie era in genere diretto, solo in un caso si avviava la sostituzione di un monaco con un sacerdote secolare per la cura d’anime in questo periodo.
Ci fu contemporaneamente un forte investimento di denaro e di idee nell’arredo delle chiese per renderle sempre più accoglienti e capaci di trasmettere un messaggio devozionale particolare, con rapporto preferenziale con i gruppi della nobiltà locale.
Espressione tipica e sintetica di questo orientamento fu nella chiesa di Monte Oliveto di Pistoia, dove la radicale trasformazione degli interni con la costruzione di cinque nuove cappelle o altari, risultava funzionale alla solennizzazione del culto della santa dell’Ordine, santa Francesca Romana e delle cerimonie dei cavalieri di s. Stefano che vi emettevano la professione. (AVS: Congregatio super statu regularium, Relationes, n. 35, c.839).
Oltre che da forti vincoli di natura economica dovuti alla proprietà fondiaria la vita delle popolazioni risultava legata ai monasteri olivetani sul terreno religioso, assistenziale e talvolta giuridico.
I canali istituzionali attraverso i quali si riverberava l’azione pastorale erano le parrocchie dei monasteri con la cura d’anime e le parrocchie da essi giuridicamente dipendenti, se pur poche tra gli olivetani. Non sempre i rapporti tra monaci e popolazione furono idilliaci, anzi il caso preoccupante di un eccidio di due monaci olivetani uccisi nel 1638 a Chiusure, nei pressi di Monte Oliveto Maggiore. La questione si trascinò davanti a Ferdinano II al quale gli abitanti si erano rivolti con memoriali infamanti la Congregazione.

La costituzione apostolica di Innocenzo X.

In esecuzione della costituzione apostolica di Innocenzo X del 22 ottobre 1652, per far fronte alle spese generali era stata ordinata la chiusura di alcuni monasteri.
Nella provincia lombarda furono chiusi:
- il monastero di S. Lorenzo di Cremona,
- il monastero della SS. Annunziata di Lodi,
- il monastero di S. Giovanni in deserto di Cremona,
nella provincia dell’Umbria: - il monastero di S. Silvestro di Todi;
nella provincia veneta - il monastero di S. Maria di Lendinara
- il monastero di S. Elena di Venezia;
nella provincia di Romagna - il monastero di S. Maria in Gradara di Mantova
(cfr. A.Stato Milano, S. Vittore Grande, Privilegi Eccles.,20).
In seguito fu presentato all’approvazione della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari l’elenco definitivo dei noviziati olivetani che erano otto e cioè:
1) – Monte Oliveto Maggiore
2) – S. Girolamo di Quarto
3) – S. Michele in Bosco di Bologna
4) – S. Maria di Baggio (Milano)
5) – Monte Morcino di Perugia
6) – S. Maria in Organo di Verona
7) – Monte Oliveto di Napoli
8) – S. Maria del Bosco in Sicilia.

Il governo toscano nella fase esecutiva della riforma innocenziana non si limitò a premere direttamente sugli organi curiali ma avanzò anche riserve giuridiche in merito ai “conventini” già soppressi e alla destinazione dei loro beni.
Lo strumento giuridico che venne usato per impugnare le disposizioni romane fu il diritto di patronato su alcune abbazie spettante alle comunità locali o ai Medici.
Le Congregazioni benedettine furono oggetto su scala nazionale di un trattamento privilegiato per ciò che concerne la conservazione delle abbazie e le soppressioni nel granducato furono quasi insignificanti. Certo la presenza dei conventini proprio nelle località più disastrate assicurava pur sempre una serie di indispensabili servizi religiosi assistenziali e di controllo sociale. E il governo toscano aveva quindi tutto il vantaggio a conservarli.
Di gran lunga più rilevante fu la secolarizzazione di centoventi grance dei benedettini, di cui sette degli olivetani; questo provvedimento sconvolse i caratteri tradizionali della presenza e dell’azione benedettina nel società e nella chiesa e il baricentro della vita monastica si spostava dalla società all’abbazia.
E’ certo che le soppressioni innocenziane erano finalizzate anche alla restaurazione della disciplina e al ripristino della vita comune, a moderare l’attaccamento dei monaci al denaro nell’eliminazione dell’occasione d’accumulo e all’esercizio dei ministeri e della pastorale.

L’interventismo religioso di Cosimo III.

Se le abbazie di Monte Oliveto Maggiore insieme a Camaldoli e Vallombrosa fossero state soppresse, la Toscana non solo sarebbe stata depauperata di tre ordini religiosi, ma avrebbe al tempo stesso perduto anche notevoli vantaggi che provenivano da questi tre santuari.
Queste presenze alimentavano la pietà religiosa dei cittadini con benefici morali, e le abbondanti elemosine che venivano distribuite a migliaia di poveri ne sollevavano le sorti.
L’intreccio tra politica e religione era evidente.
Il Granduca si era formato un’ampia ragnatela di relazioni, di amicizie e di appoggi nei dicasteri romani, essenziali per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Mediante il fitto carteggio con questi esponenti curiali il granduca riuscì a mantenere in carica più a lungo possibile, mediante conferme Camillo Maria Nelli ad abate del monastero olivetano di Firenze (cfr. ASF. Mediceo del Principato n. 314 s.c. lettera del 27 giugno 1685) o a promuovere l’avanzamento di alcuni quadri intermedi ai vertici dell’Ordine, come con la raccomandazione di Cosimo III nel 1706 ad abate generale sempre in favore di Camillo Maria Nelli.


La soppressione degli ospedali monastici sotto la reggenza lorenese.

Il processo di laicizzazione dell’assistenza ricevette una forte spinta in avanti sotto la reggenza lorenese con la soppressione di numerosi ospedali e ospizi e con misure complementari che toglievano ogni forma di direzione e di giurisdizione ecclesiastica su questi enti.
Una progressiva azione per attribuire allo stato un ruolo sempre maggiore in materia sociale portò anche all’eliminazione di un plurisecolare canale di comunicazione e di interscambio funzionali tra l’organizzazione monastica e la società.
Gli ospizi continuavano nei primi decenni del settecento a svolgere la tradizionale funzione di xenodochi, a ricevere viandanti senza distinzione, come a Monte Oliveto Maggiore e a S. Maria Asnelli della badia di s. Benedetto di Pistoia tra gli Olivetani.
Da parte politica la decisione del Consiglio di reggenza di ristrutturare radicalmente la rete assistenziale si collocava in un disegno tendente a reprimere il vagabondaggio e ad inasprire le misure di vigilanza. Il maggior numero delle operazioni di soppressione avvenne nel quindicennio 1741-1755. In questo periodo furono aboliti nello stato senese 76 piccoli ospizi.
Se i provvedimenti di soppressione riproponevano problemi di legittimità canonica, per gli ospizi del senese i loro beni rimanevano di natura ecclesiastica e perciò la giurisdizione politica non poteva estendersi né a sopprimere questi corpi né a derogare direttamente alle condizioni dalle quali dipendevano i loro acquisti.
(cfr. Lo Stato di Siena: Ospedali soppressi : ASF. Reggenza, n. 555, cc.735-1070).

Il riordinamento dell’organizzazione monastica sotto Pietro Leopoldo.

La soppressione di abbazie e monasteri venne per la prima volta prospettata nella circolare ai vescovi del 21 aprile 1773, ma la vera e propria svolta programmatica si ebbe con la circolare del 12 gennaio 1778, che conteneva l’elaborazione d’un vasto progetto di riforma dell’organizzazione regolare.
Esso prendeva il distacco delle Congregazioni religiose dalla curia romana con la conseguente eliminazione di ogni tributo, la nazionalizzazione dei religiosi e la conseguente espulsione dei forestieri, la riduzione delle case e l’impiego dei monaci in attività collaterali utili per la collettività. Non ostante le forti difficoltà si ha ragione di credere che un’intesa diretta tra le parti fosse ritenuta possibile da parte del granduca.
La circolare dell’8 gennaio 1780 a firma di Stefano Bertolini, che invitava i superiori religiosi a sorvegliare circa la “esatta e regolare osservanza” delle costituzioni e delle regole dell’Ordine sembrava offrire una collaborazione.
Il generale degli Olivetani Antonio Luigi Antonio Stampa non tardò a capire che una preventiva pattuizione delle misure soppressive avrebbe evitato atti unilaterali dei sovrani assoluti e sventato colpi più duri alla Congregazione. Per cui dopo aver sottoscritto un’intesa con il governo imperiale per la riduzione dei monasteri in Lombardia propose nel 1775 un piano analogo per la Toscana, che portò alla soppressione di due monasteri nel senese, cioè quello di S. Maria di Barbiano presso S. Gimignano e quello di S. Maria Assunta a Rapolano, con la conseguente distribuzione dei monaci, delle rendite e degli obblighi fra gli altri monasteri. (cfr. Motuproprio granducale del 31 dicembre 1775, pp.386-389).
Nel 1773 avvenne la permuta del monastero olivetano di S. Pietro in Vinculis o S. Pierino di Pisa con quello di S. Michele degli Scalzi nella stessa città, appartenente ai canonici lateranensi. (Scarpini, I monaci.,p.381; Greco, la parrocchia a Pisa, cit. pp.141-142).
Presso il monastero di S. Benedetto di Pistoia, i monaci si erano impegnati in un servizio di pubblica utilità, come il mantenimento di un maestro per insegnare alla popolazione i primi elemento di grammatica.
Per l’esiguo numero di monaci un editto granducale del 27 ottobre 1774 aveva soppresso il monastero olivetano di S. Bartolomeo delle Sacca presso Prato e trasferiti i beni al Collegio Cicognini. Certo da parte dei superiori restava difficile rispondere positivamente alle richieste granducali di accrescere l’organico dei piccoli conventi e di allargare il campo degli impegni apostolici e sociali, come si richiedeva al Generale degli Olivetani per il monastero di s. Anna in Camprena di Siena (cfr. ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269,p. 95).

Le soppressioni monastiche di Pietro Leopoldo.

Le teorie regaliste posero una giustificazione giuridica al potere di sopprimere i conventi e di mutare la destinazione dei beni.
Nel giugno 1783 fu stabilito che S. Maria in Gradi di Arezzo fosse trasformata in parrocchia e concessa agli Olivetani di quella città, che a loro volta avevano ceduto il monastero di S. Bernardo al Vescovo di Arezzo per la casa di esercizi spirituali per il clero.
Lo stesso Vescovo Marcacci ne aveva auspicato il subentro degli olivetani ai cenobiti camaldolesi in Arezzo.
E’ certo che i superiori regolari sebbene interpellati per primi, finirono per essere sostanzialmente esautorati dai processi decisionali, perché il granduca preferì consultare con sempre maggior frequenza i vescovi, attratti dai vantaggi che sarebbero derivati alle loro diocesi.
Il giudizio che il granduca si era fatto della condotta e dello scarso servizio dei monaci influì nella decisione di ridurre drasticamente da undici a tre i monasteri della Congregazione di Monte Oliveto. E’ vero che esisteva una sproporzione vistosa fra il numero delle case e gli organici. Infatti il numero complessivo dei membri della Congregazione olivetana dopo una crescita da 852 a 911 tra il 1705 e il 1735, scese a 86 nel 1770;

i monasteri erano 7 con 20-30 membri
12 con 10-20 membri
60 con un numero inferiore e cioè da 3 a 10 membri.
(Cattana V., Monasteri e monaci olivetani durante il secolo XVIII, in Settecento monastico italiano, cit. pp.419-439 in specie l’Appendice I. In Toscana nel 1767 su 11 monasteri)
5 erano formati da 4-7 membri
3 da 9-10 membri
3 da 12 o più membri. (ASF, Segreteria di gabinetto, n.49 ins. 19).
La soppressione di otto monasteri olivetani venne decretata volta per volta dal granduca senza che prima fosse stabilita una lista delle case in pericolo e senza preavvisi del governo all’Abate generale.
Dopo S. Benedetto di Pistoia, soppresso il 3 agosto 1782 su consiglio del Ricci, toccò all’abbazia di S. Anna in Camprena in Val d’Orcia, che venne abolita il 31 maggio 1784 su proposta del Vescovo di Chiusi e Pienza, Giuseppe Pannilini. Questi fu incaricato dell’esecuzione del provvedimento che prevedeva il passaggio di proprietà degli edifici alla Diocesi e l’utilizzo delle entrate unicamente per soccorrere le chiese povere ed erigerne delle nuove. (ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269, c.102, biglietto della Segreteria di Stato del 31 maggio 1784). Tra il Vescovo Pannilini e i monaci seguì una vertenza sui beni di uso personale.
Il motu proprio del 12 giugno 1784 pose le premesse per l’abolizione di altre due case olivetane; con esso si intese porre fine all’abuso di mantenere a Monte Oliveto una quantità non indifferente di ‘forestieri’ mediante la loro espulsione entro l’agosto seguente.
La perdita di dieci monaci esteri rispetto all’organico di ottantasei provocò, per insufficienza di personale, la soppressione dei monasteri di S. Michele degli Scalzi di Pisa, passato alla Congregazione da appena un decennio e di s. Andrea di Volterra. Il monastero di S. Andrea di Volterra aveva riuniti i beni con l’altro di S. Maria di Barbiano. La media decennale dello stato economico dal 1774 al1784 dava un attivo complessivo di 1984 scudi a fronte di un passivo di 703 scudi. I Monaci lasciarono la casa agli inizi del settembre 1784. La soppressione effettiva del monastero di S. Michele degli Scalzi avvenne il 1° giugno 1784 sotto la vigilanza dell’arcivescovo di Pisa che, in un secondo tempo, credette opportuno stabilire una nuova parrocchia in S. Croce dei minori osservanti piuttosto che in S. Michele.
L’ultimo monastero olivetano ad essere soppresso da Pietro Leopoldo fu quello di S. Maria in Gradi di Arezzo, che era anche il più recente tra quelli aggregati all’Ordine. (Rescritto granducale del 17 agosto 1786, AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins. 1786).
La destinazione dell’edificio conventuale a parrocchia o a casa di esercizi spirituali e l’incorporo dei beni nel patrimonio ecclesiastico diocesano portano a credere che l’eliminazione del cenobio rientrasse nel più vasto programma di riordinamento della diocesi aretina. I provvedimenti contro gli Olivetani furono nel complesso particolarmente duri, non solo per la spoliazione della maggior parte dei beni, ma anche per la forma in cui vennero eseguiti.
A Pistoia per esempio il monastero di S. Benedetto fu circondato dagli uomini del giusdicente nell’ora di pranzo e fu intimato ai monaci di partire immediatamente (ASF, Segreteria del regio diritto, n. 5269, cc.440-595). I tempi di evacuazione furono in genere particolarmente stretti e non ammisero alcuna proroga. Ai monaci che erano stati privati del monastero non fu erogata alcuna pensione, ma solo un “discreto viatico per ciascuno” e il rilascio dei mobili e degli altri oggetti personali.
I rapporti tra il granduca e l’Ordine olivetano erano talmente compromessi che l’abate generale fu totalmente escluso dalle consultazioni e l’attuazione dei provvedimenti fu affidata esclusivamente ai vescovi.


Il riassetto organizzativo delle Congregazioni maschili.

Quale fu il ridimensionamento che per ciascuna congregazione venne attuato? Su 55 monasteri benedettini esistenti nel 1767, 31 ne rimasero in piedi nel 1786 con un calo del 44% e in complesso tutti gli ordini subirono una diminuzione di sedi proporzionalmente uguale.
Il patrimonio dei monasteri soppressi tra il 1782 e il 1786 non fu incamerato nelle casse dello Stato ma in gran parte alienato e destinato per vari scopi.
I beni dei due monasteri olivetani e di due certose passarono al Patrimonio ecclesiastico competente per i bisogni del clero diocesano.
Pietro Leopoldo ebbe anche un atteggiamento diversificato verso il mondo monastico.
La collaborazione tra il granduca e i benedettini si sviluppò anche nel settore della cultura e dell’istruzione pubblica. Anche i monaci di Monte Oliveto Maggiore e di S. Bartolomeo di Firenze mantennero nel corso del settecento alcuni giovani secolari in educazione.
Infatti con motuproprio del 31 dicembre 1775 Pietro Leopoldo stabiliva i posti dell’educazione riservati ai giovani nobili nei monasteri di Monte Oliveto e di Firenze. Nel 1776 il granduca raccomandava all’Abate generale un certo Vanni di Volterra e chiedeva un elenco annuale degli altri ospitati a Firenze (AMOM, Ordini di Toscana, cit. lettera di G. Rucellai del 23 novembre 1776).

Le basi della riforma statutaria degli Ordini.

Il promemoria sulla riforma dei regolari del sinodo di Pistoia del 1786 che insisteva sull’idea già espressa dal Ricci, che l’organizzazione autonoma della Congregazione rappresentava un ‘corpo pericoloso’ per la sovranità dello stato fu assunto anche da altri vescovi, che si schierarono sulle posizioni ricciane e anch’essi invocarono misure radicali.
Il vescovo di Chiusi e Pienza mons. Pannilini propose al granduca d’estinguere la Congregazione olivetana per mancanza di soggetti e di sperimentare per primo nella sua diocesi il passaggio dei rimanenti monaci sotto la sua giuridsdizione. Nella lettera del Pannilini del 26 febbraio 1785 al granduca, scriveva “Ognuno vede che questa (degli olivetani) è una delle religioni nel presente loro sistema di minor vantaggio per il servizio del popolo e che va a restringersi talmente il numero dei religiosi qui in Toscana che tra pochi anni non avranno da riempire i loro monasteri”, “io pertanto nel bisogno grande in cui siamo di trovare rendite ecclesiastiche per tanti lodevoli fini che ha in mira l’A.R. crederei opportuno che fosse soppressa nei suoi felicissimi Stati questa religione prima che andasse a finire da se e disastrasse di più le sue rendite” (ASF, Segreteria di gabinetto, n. 43, ins.5).
Segnali anticipatori della legislazione del 1788 furono tanto il decreto del 28 giugno 1781 che escludeva i religiosi “forestieri” da ogni carica di governo dei monasteri e conventi del granducato senza il permesso del sovrano, quanto l’altro del 17 gennaio 1782 che vietava il soggiorno in Toscana a tutti i monaci “forestieri” e ne ordinava l’espulsione ove non avessero beneficiato per buona condotta e per merito della grazia della cittadinanza toscana.
Oltre che ridurre il già smilzo organico delle Congregazioni benedettine, quest’ultimo provvedimento sollevò il difficile problema di come conciliare la prerogativa di alcuni archicenobi toscani con il divieto di accogliere novizi, funzionari e titolari di cariche interne provenienti da sedi estere. Per la prima volta la natura sovrastante degli ordini religiosi entrò in aperto conflitto con la legislazione Leopoldina.
La situazione degli Olivetani fu molto grave. Essi dopo due anni continuavano a trovarsi in una posizione irregolare: Alcune concessioni granducali furono ritenute insufficienti dall’Abate generale che chiarì come l’allontanamento dei monaci esteri avrebbe sconvolto sia l’ordinamento della Congregazione, perché a Monte Oliveto Maggiore era stabilita la carriera per giungere alle cariche primarie, sia la sua economia, perché sarebbero cessate le contribuzioni di circa duemila scudi annui da parte dei monasteri affiliati.
La soluzione proposta dal governo toscano fu quanto mai pragmatica: si concedesse pure agli esteri il permesso di soggiorno nell’archicenobio, ma in numero proporzionato alle tasse pagate dalle sedi affiliate. (cfr.ASF, Segreteria del regio diritto,n. 5282- 1 luglio 1784 e relativo parere).
La completa nazionalizzazione del clero regolare venne attuata il 2 ottobre 1788 con l’abolizione di ogni autorità, superiorità ed ingerenza di qualunque Superiore estero ed il conseguente scioglimento di ogni vincolo passivo di tipo giurisdizionale, disciplinare, economico e di governo da qualunque Capitolo generale, Definitorio e Congregazione tenuta fuori dello stato. Il motu proprio Leopoldino seguiva quello Giuseppino del 20 luglio 1781 per la Lombardia austriaca e quello borbonico del 2 settembre 1788 per il regno di Napoli.
La soluzione fu trovata; fu concesso agli Olivetani che tutti i monasteri della congregazione continuassero a riconoscere la casa madre e fu concessa la possibilità di eleggere abati generali provenienti dalle diverse province, ma non da quella di avere abati e monaci esteri negli altri monasteri del granducato.
Le due novità sostanziali del motu proprio Leopoldino sono in primo luogo il passaggio dalla giurisdizione personale dei generali a quello territoriale dei vescovi in cui era situata la loro casa. Questi avrebbero esercitata l’autorità in materia spirituale e di formazione culturale, mentre ai superiori delle sedi locali sarebbero rimaste competenze d’ordine esclusivamente disciplinare. La seconda novità del decreto era costituita dal tentativo di disegnare un nuovo profilo del governo degli ordini religiosi. Si livellavano le diverse “regole” o ordinamenti col prevedere il “Definitorio” come unica struttura consultiva del generale e del provinciale.
In parallelo con la tendenza espressa dal sinodo di Pistoia del 1786, si introducevano norme tendenti a temperare il principio dalla passiva obbedienza dei monaci e conversi verso l’autorità gerarchica del superiore locale. In particolare si obbligava quest’ultimo a render conto ai confratelli una volta al mese dello stato economico della casa “con dar facoltà ad ogni individuo di dire quanto gli occorra e proporre ciò che creda utile” e si garantiva ai religiosi la facoltà di appellare ai vescovi contro i provvedimenti disciplinari inflitti, nonché ai tribunali e giusdicenti statali per qualunque questione di carattere temporale. Questa timida apertura verso forme di partecipazione collegiale alla vita interna era però controbilanciata dall’intromissione nei capitoli provinciali di rappresentanti dello Stato e dell’ordinario diocesano. Così ogni aspetto della vita materiale dei monasteri e dei religiosi era passato sotto la vigilanza dello Stato, anche l’autonomia deliberativa, amministrativa ed economica degli ordini religiosi fu fortemente limitata.

Il sistema monastico nella Toscana ‘francese’.

Il passaggio di poteri da Pietro Leopoldo a Ferdinando III inaugurò nella Toscana degli anni 1790 una politica ecclesiastica più distensiva e meno rigida, caratterizzata da un maggior rispetto dell’autonomia giurisdizionale dei vescovi e da un atteggiamento più conciliante verso i superiori regolari.
La congregazione monastica che maggiormente beneficiò di questo nuovo clima politico fu soprattutto quella olivetana insieme a quella Vallombrosana.
A Monte Oliveto Maggiore il nuovo Granduca restituì il 24 maggio 1793 la dignità di abbazia nullius nonostante l’opposizione del Vescovo Pannilini di Pienza; assegnò un sussidio annuo di 1500 scudi sulle rendite dei beni eversi e permise che vi si tenessero sei monaci “esteri” “per supplire alla scarsezza dei soggetti capaci di coprire impieghi e uffici della Congregazione” (cfr. AMOM, Ordini di Toscana dal 1770 al 1809, ins.1973 e 1794; Scarpini, I monaci benedettini..pp.417-418).
La Congregazione olivetana beneficiò anche di provvedimenti tendenti ad alleggerire le procedure di controllo statale sulle vestizioni e sulle professioni sacre. Invece di richiedere di volta in volta le autorizzazioni fu concesso agli ordinari d’inviare alla Segreteria del regio diritto una nota delle licenze entro il maggio di ogni anno “a condizione – si precisava – che non possano permettere la vestizione dell’abito regolare prima di diciotto anni compiti” (AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins. 1792, dispaccio della Segreteria di Stato del 7 maggio 1792 trasmesso con circolare del Cellesi il 26 successivo). “Si ammetteva che i religiosi potessero essere ordinati laddove dimoravano in quel momento”.
I limiti però d’età fissati per le vestizioni e le professioni religiose rimasero immutati e la proibizione di accogliere “forestieri” nei monasteri toscani anche per brevissimo tempo fu ribadita costantemente dalla Segreteria del regio diritto con circolare del 21 marzo 1794 al Generale degli Olivetani.
D’altra parte la grave crisi economica e sociale che aveva interessato il granducato fin dagli ultimi anni ottanta sembrò riattivare i rapporti di tipo tradizionale tra i governi che si succedettero nella fase rivoluzionaria e il mondo monastico. L’aggravarsi del debito pubblico, l’ascesa vertiginosa dei prezzi dei generi di consumo, l’enorme incremento delle spese per il mantenimento delle truppe straniere portarono il governo toscano a richiedere, sotto varie forme, la collaborazione economica degli ordini religiosi possidenti.
Un appello in questo senso f u rivolto sin dal 1790 perché si accollassero quote pensioni a carico dei patrimoni ecclesiastici in considerazione degli sgravi fiscali decisi dal governo verso la curia romana nel 1794, perché procurassero lavoro alle manifatture di seta che ne erano sprovviste. (AMOM, Ordini di Toscana, cit. ins.1794, circolare del Cellesi, 17 gennaio 1794).
La breve invasione della Toscana da parte delle truppe francesi nel marzo 1799 procurò notevoli vessazioni per i conventi e un irrigidimento legislativo verso il clero regolare. Tre giorni dopo l’occupazione, il commissario generale del governo francese Reinhard impose una contribuzione forzosa di diecimila scudi.
A metà aprile fu ordinato ai regolari di “restituirsi ai conventi di loro filiazione o vestizione” cioè di ritornare alla loro patria, entro tre giorni. Ma la Congregazione Olivetana venne esclusa dal provvedimento di rimozione dei religiosi e di esilio dei “forestieri” perché, secondo quanto scriveva il Rivani al generale olivetano il 1° floreal (=20 aprile) Monte Oliveto Maggiore era stato “sempre eccettuato dalla censura della legge sopra i forestieri”. (AMOM, Ordini di Toscana cit., ins. 1799).
Alle angherie dei francesi subentrarono presto le lusinghe del Senato fiorentino, che aveva assunto il governo civile della Toscana dopo l’occupazione degli austriaci. Il 24 settembre il segretario della giurisdizione Cellesi venne incaricato di trattare con gli ordini religiosi “più ricchi” per indurli a prestare denaro con cui provvedere all’approvvigionamento del grano
“ponendo loro in vendita – si faceva rilevare – il merito che si faranno presso il governo” (AMOM, Ordini di Toscana, cit., ins.1799).
La risposta della Congregazione olivetana fu sintomatica. I monaci si dicevano aggravati “all’estremo” e quindi nell’impossibilità di assumere nuovi oneri finanziari e di accrescere le distribuzioni di pane e di contanti, si faceva l’esempio del monastero di S. Bartolomeo di Firenze che erogò circa duemila ogni settimana). Inoltre gli Olivetani denunciavano le spoliazioni di argenteria, biancheria e denaro, non che le contribuzioni e i prestiti coatti che il monastero di S. Bartolomeo di Firenze aveva dovuto effettuare per sussidiare l’ospedale di S. Maria Nova e per supplire alle spese di guerra durante l’invasione francese. A questi mali essi aggiungevano la perdita delle “tasse di regola” a favore dell’Archicenobio causate dalla soppressione di molti monasteri in Toscana e in Italia, e le spese straordinarie di cui erano gravati al presente per il mantenimento gratuito di alcuni alunni nei collegi interni di Monte Oliveto Maggiore e di Firenze, per la sussistenza dei contadini e per i restauri delle case coloniche “rese quasi inabitabili per alcuni terremoti avvenuti nel senese (AMOM, Ordini di Toscana cit., ins.1799).
Non ostante ciò il 13 febbraio 1801 tutti i regolari “esteri” non naturalizzati o sprovvisti di licenza governativa, furono obbligati a partire “immediatamente” dai conventi del granducato (AMOM, Ordini di Toscana dal 1770 al 1809 ins.1801 circolare del Buonarroti ai superiori degli ordini religiosi, 13 febbraio 1801).
Con il passaggio della Toscana sotto la sfera d’influenza dei Borboni di Parma (2 agosto 1801) alla cui casa gli Olivetani erano assai legati, i monaci di Monte Oliveto chiesero ed ottennero nello stesso anno, il permesso di poter sopperire alla mancanza di monaci autoctoni con altri “forestieri” in Monte Oliveto Maggiore, e la facoltà di vestire e di far professare candidati per monasteri esteri e quella di aprire un educandato nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze. (AMOM, Ordini, cit. ins.1802).

Il quadro organizzativo nell’inchiesta del 1807.

Prima ancora dell’annessione del granducato all’impero francese si aprì una fase di vera e propria persecuzione degli ordini religiosi, culminante nella “soppressione generale “ napoleonica.
Dall’inchiesta condotta dall’amministrazione francese sullo stato delle case religiose maschili del 31 dicembre 1807 risulta la sproporzione fra il numero potenziale e quello effettivo dei religiosi e per i monaci di Monte Oliveto tra il 1782 e il1807 il rapporto numerico nell’area campione del Dipartimento dell’Arno era passato da 478 a 375 ed era un rapporto ancora buono. Nel 1807 gli olivetani, sebbene non pagassero dote o tassa d’ingresso dovevano supplire a molte spese “ per comodarsi di tutto il necessario”, per cui avevano un aggravio di circa 500 scudi i sacerdoti e di circa 60 scudi i conversi. (ASS. Governo francese, n.167: nota allo “Stato dei religiosi”).
Il mancato ricambio del personale aveva indotto un progressivo invecchiamento delle comunità. Presso gli Olivetani l’età media era di 51 anni e la distribuzione dei religiosi soffriva notevoli scompensi. Un graduale processo di concentrazione dei religiosi negli archicenobi e nelle case di noviziato aveva provocato una sorta d’abbandono delle restanti sedi, lasciate in custodia ad un manipolo di vecchi monaci. Gli Olivetani si erano radunati prevalentemente nel monastero di S. Benedetto di Firenze e il numero medio degli effettivi in ciascun monastero benedettino oscillava tra i 3-4 e i 6-8 monaci.
La situazione economica degli olivetani che pure aveva subito un notevole peggioramento prima con le soppressioni leopoldine e poi durante la prima occupazione francese, si manteneva su di un livello intermedio.
L’entrata annua di S. Benedetto di Siena era di 30916 lire, compresi censi e livelli; quella di S. Bartolomeo di Firenze assommava a 17982 lire con oltre 13930 lire di censi e livelli.
Monte Oliveto Maggiore aveva crediti inesigibili per 145420 lire (ASS: Governo francese, n. 158).
Quasi tutte le comunità monastiche continuavano il loro impegno caritativo e assistenziale mediante l’apertura delle “spezierie”, l’elargizione quotidiana di pane e di elemosine ai poveri. Anche l’attività di pubblica istruzione aveva ricevuto un indubbio potenziamento nei collegi di S. Bartolomeo di Firenze e di Monte Oliveto Maggiore, dove si tenevano in educazione giovani secolari fino ai diciotto anni.

La confisca napoleonica dei beni.

Le soppressioni napoleoniche furono caratterizzate da un modo di procedere sistematico, uniforme e simultaneo tra l’aprile 1808 e il settembre 1810.
I provvedimenti eversivi delle congregazioni religiose furono preceduti da un’accurata operazione di rilevamento statistico, condotta esclusivamente da qualificati funzionari statali.
Essa mirò a formare un quadro il più possibile esatto delle case, dei beni, del tipo di entrata e delle varie categorie di persone, ma anche ad acquisire tutti i dati utili per l’eventuale cambiamento di destinazione dei locali.
Il primo ordine di soppressione fu emesso dall’amministrazione della Toscana il 29 aprile 1808 in seguito ad un decreto imperiale del 24 marzo, concernente le direttive per la riunione al demanio dei beni delle Congregazioni religiose.
Furono esclusi dal provvedimento i conventi di religiosi e degli istituti di carità nonché le famiglie francescane.
In questa prima fase i religiosi poterono continuare a vivere nelle loro comunità formalmente soppresse, in attesa di venire riuniti in alcuni “luoghi di asilo” dell’ordine; fu tuttavia proibita l’ammissione di novizi senza uno speciale permesso e il pagamento di una somma rilevante; i beni immobili e mobili, le rendite e le proprietà annesse ai conventi furono indemaniate.
Per il sostentamento dei religiosi dal 1 maggio 1808 fu concessa loro una pensione annua di 500 o 600 franchi a seconda della maggiore o minore età di sessant’anni, ridotta della metà per i conversi. (cfr. Bigianti, Le soppressioni dei conventi, cit. p.457).
Il nuovo decreto, che ricalcava nella sostanza quello emanato il 25 aprile 1810 dal Regno d’Italia, prendeva una serie di misure destinate a mutare radicalmente la vita dei religiosi.
Essi dovevano evacuare i conventi entro il 12 ottobre, provvisti solamente della biancheria e della mobilia d’uso personale, presentarsi alla municipalità di residenza per dichiarare il luogo della loro futura dimora, dimettere l’abito dell’ordine a partire dal 1 novembre “sotto pena di essere arrestati dalla polizia”.
Da parte dei monaci olivetani, a nulla valsero i diversi tentativi messi in atto per stornare i decreti di soppressione, mediante raccomandazioni tra i ministri o tra le persone di corte in grado d’influenzare l’animo di Napoleone. Andarono a vuoto anche i ripetuti interventi sul generale Dauchy e sui prefetti dei dipartimenti dell’Arno e dell’Ombrone per evitare la riunione dei Camaldolesi di S. Maria degli Angeli nel cenobio di S. Bartolomeo di Firenze e per ottenere il raggruppamento dei monaci di Monte Oliveto Maggiore in S. Benedetto di Siena. (Scarpini, I monaci benedettini, pp.439-442).
Il 4 marzo 1808 giunsero a Monte Oliveto Maggiore i commissari governativi per sequestrare i beni e prendere possesso dell’abbazia: “In termine di poche ore – narra il cronista – fu sigillato il tutto e ritirate ben anche tutte le chiavi possibili, indi furono restituite a chi le aveva con la responsabilità”. Ai monaci fu lasciato appena il vitto necessario, mentre i novizi furono espulsi dopo due settimane. Alla presenza dei monaci si compirono anche le prime depredazioni artistiche: trenta tra i migliori codici miniati, diversi pregevoli, incunaboli e dieci “stampe”. Il 10 giugno seguente fu chiuso il monastero di S. Benedetto di Siena e i religiosi costretti a trovare dimora nella città in attesa di una stabile collocazione.
(cfr, Sani B:, Memorie e vicende del venerabile monastero olivetano sotto il titolo di S. Benedetto presso e fuori della porta Tufi di Siena, edito sotto il titolo: Pagine inedite di storia olivetana ne “l’Ulivo”, X, 1980, n. 3, pp.49-50).
In generale, tra il 1809 e il 1810 i benedettini della Toscana che erano stati pensionati dal governo francese erano 451, di cui 318 religiosi professi e 133 religiosi laici. Gli Olivetani erano 28 membri, tutti a S. Bartolomeo di Firenze.
A Monte Oliveto Maggiore l’11 ottobre 1810 “ fu sigillato tutto ciò che era rimasto in monastero dalla soppressione in poi inclusive la porta maggiore di chiesa dalla porta interna”, sgomberate le camere dei mobili e date il consegna tutte le chiavi a un custode laico nominato dal governo francese. L’archicenobio rimase una “spelonca”, oggetto di saccheggi delle opere d’arte della preziosa biblioteca e perfino delle campane. I religiosi una volta evacuato il convento, furono sottoposti a controlli quasi polizieschi e obbligati, entro otto giorni a presentarsi alla Mairie o alla prefettura per prestare giuramento di obbedienza alle costituzioni dell’impero e di fedeltà all’imperatore. (cfr. Naselli, La soppressione napoleonica cit. pp.68-140).
Il monastero olivetano di S. Benedetto di Siena invece, dopo essere stato nel 1812 malamente trasformato per alcuni mesi in ospizio per poveri rimase in stato di abbandono.
Sulle scelte da compiere all’indomani della soppressione non mancarono lacerazioni interne tra i religiosi zelanti, particolarmente legati alla loro congregazione e alcuni superiori ormai rassegnati ai cambiamenti imposti dalle circostanze.

Il concordato del 1815 e la restaurazione della vita consacrata.

Dal riscontro delle famiglie ricostituite dai rispettivi vescovi si viene a sapere che gli Olivetani in tutta la Toscana erano tra la fine del 1815 e la fine del 1816 in numero di 30 monaci. Con la Restaurazione si apriva il secolare contenzioso fra la chiesa e lo stato; c’era un impossibilità materiale e politica per ottenere un ripristino integrale degli antichi privilegi, e ciò spinse la curia romana ad accogliere soluzioni di compromesso in cambio del riconoscimento civile degli istituti religiosi e di una parziale ricostruzione del relativo patrimonio.
Espressione di nuovo equilibrio politico fu il concordato tra la S. Sede e la Toscana, concordato stipulato il 4 dicembre 1815.
I principi che dovevano regolare un’eventuale intesa con la S. Sede furono esposti dai più alti consiglieri a Ferdinando III in una “rappresentanza “ del 27 luglio 1815.
Le buone intenzioni del governo granducale verso le congregazioni monastiche si erano del resto manifestate anche durante le trattative preliminari per la stipula del concordato.
Il consigliere Nuti aveva ventilato al cardinale Oppizzoni l’ipotesi che anche agli olivetani fosse riservato un trattamento privilegiato rispetto agli altri ordini mediante l’attribuzione di una “sopraddote” annua complessiva di 10965 scudi. Ciò in considerazione dell’esercizio frequente dell’ospitalità da essi praticato.
Veniva costituita una commissione mista e si fissavano le direttive che avrebbero regolato le operazioni per il loro ripristino e la nomina dei membri della commissione da parte granducale venne fissata con motu proprio del 2 dicembre 1815. La commissione mista si impegnò a “porre in essere prelativamente ad ogni altra la ripristinazione di monasteri tra cui Monte Oliveto Maggiore. Certo per alcune congregazioni monastiche si prefigurava una promettente ripresa, dal momento che sia il testo del concordato sia i lavori della commissione mista avevano mostrato un particolare riguardo verso le famiglie religiose di fondazione toscana.
Ma l’insufficiente numero di monaci disposti a rientrare nei chiostri costituì un limite che impose la restrizione delle riaperture di case monastiche.
Il superiore che oltre a mantenere i contatti con i confratelli, rappresentasse ufficialmente il proprio istituto per gli Olivetani fu Giuseppe Cassinis, che se pur designato dal 30 settembre 1814 non esercitò mai l’ufficio mentre dal 7 luglio 1816 fu surrogato per iniziativa del Cardinale Protettore il lucchese Stefano Giannetti (cfr. Sani, Memorie e vicende ms. cit. edito in “l’Ulivo”,X 1980,p.54).
E’ certo che la riaggregazione dei membri dispersi ad opera dei superiori fu cosa tutt’altro che facile e immediata.
Le date di riapertura effettiva dei monasteri benedettini sono piuttosto avanzate rispetto agli altri ordini religiosi. Il primo monastero fu Monte Oliveto Maggiore il 18 novembre 1816 con un monaco e due conversi. Seguiva il monastero olivetano di S. Bartolomeo di Firenze il 1 giugno 1817 con sei monaci e quattro conversi.

La ricomposizione patrimoniale.
L’organismo monastico usciva dal periodo rivoluzionario e napoleonico decurtato dei vasti patrimoni accumulati nei secoli, diviso al proprio interno dalle numerosissime defezioni e incerto sul proprio destino per la mancanza di membri e per la scarsità di mezzi.
Preoccupazione immediata della Congregazione ristabilita fu di ottenere dalla commissione mista nuovi e più consistenti beni immobili per accrescere la dotazione patrimoniale, che si riteneva ridotta o comunque insufficiente.
Grazie alla zelante attività e ai validi appoggi del loro cellerario Benedetto Bellini gli Olivetani riuscirono a strappare dopo lunghi contrasti con l’arcivescovo e la nobiltà senese la concessione del grande complesso conventuale di S. Chiara a Siena, a titolo di mero ospizio urbano per i monaci dell’Archicenobio, ma con la segreta mira di erigervi, appena possibile, un grande monastero. Infatti tra il “1 giugno e il 13 luglio 1818 la commissione mista assegnò agli Olivetani l’ospizio di S. Chiara a Siena e i suoi annessi come oliveti, frutteti e altri edifici. (AMOM, corrispondenza coll’I. e R. Governo dal 1817 al..; Nuti G. B: al vicario generale, 14 luglio 1818).
Riaperta l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore ci si adoperò per recuperare opere d’arte, reliquie e altri oggetti di devozione particolarmente cari alla memoria dei monaci e della popolazione, come avvenne nel corso del 1817 con il recupero del SS. Crocifisso reliquia principale del monastero e la statuina in cera rappresentante la S. Bambina che era finita in mani di privati. (Sani, Memorie e vicende ms. cit., edito in “l’Ulivo”, X, 1980, n. 4, pp.48-50 Ibid., XI, 1981, n. 1, pp. 50-52).
Fra il 1819 e il 1820 gli Olivetani procedettero ai restauri della celleraria, della cucina, dei quartieri dell’abate e del vicario generale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore e la vita quotidiana si andò normalizzando secondo i vecchi ritmi fino a rimettervi nel 1818 la clausura se pur limitata prima al monastero e dal 7 maggio 1821, anche quella esterna.
(Sani, Memorie e vicende ms., cit. edito in “l?Ulivo”, XI, 1981, n.2, pp.64-67).


Il nuovo profilo organizzativo.

All’inizio della restaurazione tutte le famiglie benedettine preesistenti alla confisca napoleonica vennero ricostituite in Toscana ma con un numero di cenobi notevolmente ridotto, pari in genere ad un terzo del totale precedente. Gli Olivetani ne ottennero due su tre:
Monte Oliveto Maggiore con l’ospizio di S. Chiara e S. Bartolomeo di Firenze.
Fino alle soppressioni dello Stato italiano del 1860 le abbazie benedettine toscane si mantennero per lo più secondo quanto previsto dalla commissione concordataria del 1815 e a paragone con la situazione degli altri stati italiani, la consistenza organizzativa non solo non appare penalizzante, ma documenta una certa larghezza di concessione del potere politico verso una restaurazione monastica. Di fatto la capacità ricettiva dei cenobi ripristinati restavano sicuramente sovradimensionata rispetto alla quota dei monaci toscani esistenti.
Anche tra gli Olivetani ci furono segnali non meno espressivi dell’insufficiente attaccamento al proprio archicenobio in quegli stessi anni dai generali Giannetti e Ambrosi.
Il Giannetti infatti attorno al 1827 decise di lasciare l’archicenobio di Monte Oliveto e con altri confratelli si trasferì nell’0spizio di Siena, da lui restaurato e provvisto di ottimi arredi, la sua decisione si scontrò tuttavia con la violazione degli ordini di Leopoldo II che in S. Chiara, con rescritto del 18 maggio 1826, aveva proibito la permanenza fissa di qualunque monaco e negata la possibilità di crearvi una nuova famiglia religiosa, come invece gli Olivetani avevano fin dall’inizio sperato. (AMOM, Corrispondenza, cit. lettera del Segretario del regio diritto, Magnani, del 29 maggio 1827 ; anche Sani, Memorie e vicende ms. cit. edito in “l’Ulivo”, XII, 1982, n.3, p.43).
Al noviziato fu legato fin dall’inizio il ristabilimento del convitto-educandato per rinsaldare i legami con i ceti dirigenti e soprattutto propiziare nuove vocazioni. Il governo toscano approvò questo istituto, ma volle anche ribadire che esso era soggetto alla sorveglianza del regio consultore degli studi (AMOM, Corrispondenza dell’I. R. Governo dal 1817 al..Magnani al vicario generale, 3 gennaio 1823, facente seguito al rescritto granducale del 24 dicembre 1822).
Nella Congregazione olivetana l’andamento del convitto fu molto travagliato. La sua prima apertura era avvenuta nel luglio 1802 nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze.
L’abate generale Ambrosi si mostrò poco propenso a difendere l’importanza dell’archicenobio se nel 1821 non esitò ad assecondare il progetto del vicario Giuseppe Coppola di trasferire nel monastero di S. Bartolomeo di Firenze il noviziato e la maggior parte dei monaci toscani. Per fortuna l’assenza della famiglia monastica e l’incuria amministrativa durò solo alcuni mesi, giacché il generale olivetano cambiò idea e nel 1822 ritornò a Monte Oliveto Maggiore con l’approvazione del piano da parte del granduca.
Sei anni dopo, insieme al noviziato si riportò di nuovo il convitto nel monastero di Firenze.
Circa la consistenza numerica raggiunta dalla Congregazione Olivetana nella prima metà del XIX secolo, essa si arrestò su livelli medio-bassi a causa di un sensibile calo, e da 36 monaci si scese nel 1845 a 21.
La capacità di recupero restò dunque assai limitata, che anzi seguì una nova fase di declino.
L’inchiesta promossa della S. Congregazione sullo stato dei regolari del 1847 ci offre una
panoramica esauriente degli effettivi.
In quell’anno in Toscana esistevano 235 religiosi benedettini; per gli Olivetani dalle Familiarum Tabulae (AMOM,Familiare monasteriorum, 1743-1855) a Monte Oliveto Maggiore, dopo un insufficiente organico negli anni 1830, recuperò in seguito (nel 1845 e nel 1853 la famiglia era di diciotto persone non distinguendo se monaci, conversi, novizi, educandi e servitori secolari).

Vecchie e nuove strategie di reclutamento.

Un fenomeno di ristagno delle professioni monastiche si evidenziò in questo periodo e cioè dal 1828. Certo le limitazioni erano imposte dalle gerarchie romane, con la negazione del diritto alle vestizioni imposta dal luglio 1828 e il febbraio 1831 e di nuovo nel luglio 1843 sotto Leone XII e i visitatori apostolici. Il carteggio intercorso con la Segreteria del regio diritto non solo non presenta per gli olivetani alcun veto all’ingresso nella vita religiosa ma anzi documenta un certo numero di eccezioni per l’ammissione di monaci esteri.
Sicuramente le restituzioni geografiche e l’elevamento dell’età minima per l’ingresso nello stato religioso, avranno selezionato ma non compromesso lo sviluppo delle vocazioni.
Le condizioni di ammissione dei monaci coristi rimasero ancora troppo selettive quanto all’estrazione sociale, al grado di istruzione e alla dote o suoi sostituti. Infatti verso il 1845 gli olivetani dichiaravano che i loro postulanti non provenivano “né dall’aratro né dalle botteghe”, ma che erano ricercati tra quelli “educati, ben nati e sufficientemente comodi per supplire alle spese necessarie, sebbene limitate, per il loro ingresso, professione e vitalizio, ancora troppo ai medesimi necessario.” (Bibl. Marucelliana, Firenze, ms. D;XLVIII. 19, cc.176r-179v).


Il monachesimo del secolo XIX.

Tentativi d’unione delle congregazioni benedettine.

Il ripristino dei conventi e dei monasteri nelle diocesi appena recuperati, fu, nonostante le gravi remore pendenti sulla ricostruzione politico-amministrativa, una delle preoccupazioni prioritarie a cui volle dedicarsi Pio VII.
Nella mente del pontefice questa opera si connetteva strettamente ad un progetto di una “generale riforma” ecclesiastica.
Come c’erano state alcune trattative tra varie congregazioni, analoghe trattative d’unione furono intavolate dal Bellenghi a partire dal 1821 fra camaldolesi e olivetani.
Le posizioni delle parti si chiarirono fin dalle prime battute iniziali. Per evitare che l’operazione figurasse in partenza come la fusione dell’una nell’altra congregazione, si progettò la confluenza di ambedue in una terza denominata “monaci benedettini bianchi” con abito diverso da quelli in uso. Quest’accorgimento non venne tuttavia apprezzato dal vicario generale olivetano Ascanio Giannetti, che addusse contro il Bellenghi una serie di rilievi e di controproposte.
Gli Olivetani non solo non vedevano la necessità di estinguere la loro antica e gloriosa congregazione, ma paventavano che la soppressione delle due congregazioni avrebbe offerto a molti monaci il pretesto di abbandonare la regola o l’abito, e che la nuova sarebbe stata depauperata dei privilegi spirituali e materiali con un colpo di mano dei vescovi e della curia romana. Inoltre il Giannetti credeva opportuno che l’auspicata congregazione olivetano-camaldolese indossasse l’abito olivetano, avesse come proprio archicenobio Monte Oliveto Maggiore e che solo nello stemma e sigillo comparisse il simbolo dei camaldolesi insieme a quello degli olivetani inquadrati col motto “unione fortior”.
Così impostato il disegno d’unione assumeva la forma di un vero e proprio inglobamento
d’un istituto nell’altro. Se si pensa poi che ciascun monaco delle due congregazioni avrebbe dovuto firmare un capitolato d’unione ed esprimere il proprio parere favorevole si può capire il perché anche questa iniziativa fosse votata al fallimento. (cfr. V. Cattana, Il declino della congregazione di Monte Oliveto tra restaurazione e la metà del XIX secolo, in :Il monachesimo italiano, cit.. pp.349-350, 385-388).
La consapevolezza che l’unificazione degli ordini benedettini fosse la “sola tavola di salvezza dal naufragio al corpo monastico”, spinse Leone XII a riesumare verso la fine del 1825 il vecchio progetto del Bellenghi. Ma dopo il completo fallimento delle intese venne la reazione vera e propria nel giugno 1828 col provvedimento di soppressione a tempo indeterminato delle vestizioni e delle professioni nella Congregazione olivetana. Ciò non è difficile collegarlo con i disordini interni, ossia con le accuse del generale Giampè contro il suo predecessore Giannetti (Memorie di un vecchio abate, a cura di R. Donghi, “l’Ulivo”, XIX, 1989.pp.41 e 47) e con le loro opposizioni alle direttive della S. Sede.
La riaffermazione dei principi giurisdizionalisti venne generalmente perseguita con una certa flessibilità, talora agevolando le procedure di vigilanza, come per l’obbligo di celebrare i capitoli generali degli ordini davanti ad un delegato governativo, fu sostituito abbastanza presto con la richiesta di approvazione degli atti. Nel 1845 in via del tutto eccezionale fu inviato un rappresentante al capitolo degli olivetani (AMOM, Corrispondenza, cit., lettera del Bacci, 29 novembre 1846).
Qualche ondeggiamento si ebbe anche sulla proibizione dei religiosi esteri. Alle concessioni graziose del sovrano per alcuni monaci negli anni venti, seguì un irrigidimento negli anni trenta, in concomitanza con le soppressioni degli olivetani nello Stato pontificio, da parte di Gregorio XVI: Infatti la richiesta di accoglienza nel granducato da parte degli olivetani sembrava bene avviata presso il dicastero del regio diritto, ma venne respinta in linea di massima da Leopoldo II il 14 ottobre 1831 (AMOM. Corrispondenza, cit., lettere del Magnani 23 settembre e 29 ottobre 1831).
Una limitata tolleranza venne comunque ammessa nel 1839 verso alcuni olivetani forestieri “perché proseguissero a godere le pensioni loro assegnate dal governo pontificio e a contribuire con queste alla spesa del loro mantenimento (AMOM, Corrispondenza, cit., lettere del segretario del regio diritto del 7 ottobre 1839 e del 5 dicembre 1840).
Allo scopo di prevenire ogni “influenza estera”, che potesse oscurare le prerogative regie sui monasteri toscani, Leopoldo II ribadì nel 1830 al vicario generale degli olivetani che il governo non era disposto ad ammettere alcuna decisione “diretta a modificare in qualsivoglia forma lo stato delle persone e delle cose dei monasteri medesimi” e che le “disposizioni o riforme” eventualmente adottate dallo Zurla non potevano “estendersi né essere attese rispetto ai monasteri esistenti nel granducato se non in quei soli rapporti che direttamente interessino l’osservanza della regola e della disciplina. (AMOM, Corrispondenza, cit., lettera del segretario del regio diritto Magnani, del 31 agosto 1830 in ordine al rescritto del 20 agosto precedente).

Il problema del riassetto “costituzionale” e disciplinare.

I radicali mutamenti subiti dalle articolazioni istituzionali delle Congregazioni benedettine all’indomani dei processi di ricostruzione concordataria imponevano un adeguamento dei loro profili statutari.
Le riforme statutarie elaborate del generale degli Olivetani Giannetti assunsero carattere di semplice adeguamento alla ridotta consistenza organizzativa. Esse furono approvate il 30 gennaio 1827 da Leone XII e per l’esiguità dei monasteri rimasti vennero eliminate le tradizionali “province” sostituite da due grandi raggruppamenti geografici, la “sezione” pontificia e quella “estera”. Per l’elezione alle cariche maggiori rimaneva valida la cosiddetta alternativa, così come il principio della spartizione dei visitatori, da sciegliersi tra gli abati e gli ufficiali di Monte Oliveto Maggiore.
Un nuovo corpo di costituzioni olivetane si comincerà ad elaborare molto lentamente nel clima di rinascita spirituale della Congregazione del tardo ottocento.
Ma intanto l’accentuarsi dei disordini nella Congregazione olivetana avevano costretto la S. Sede a intervenire ripetutamente fino a minacciarne la soppressione.
Una parziale schiarita in questi rapporti, dopo il “fatale decreto” di Leone XII, venne con il voto Pio VIII del 4 maggio 1830, che sanciva la conservazione della congregazione olivetana e di quella Silvestrina con l’affidarne la riforma ad un visitatore apostolico nella persona del cardinale Zurla.
Forse pentiti di non aver accolto qualche anno prima le offerte d’unione dei camaldolesi, i nuovi vertici degli olivetani, il generale Gaspare Giampiè e il vicario Giuseppe Coppola si fecero promotori nell’aprile 1831 di un piano di scambi materiali e morali fra le due congregazioni. Successivamente esso venne adottato in termini notevolmente più favorevoli ai camaldolesi e presentato a Gregorio XVI per l’approvazione ed esecuzione. Ma la reazione del visitatore apostolico Zurla alla S. Congregazione dei vescovi e regolari sull’impossibilità di ripristinare l’osservanza nei monasteri olivetani, tesi aggravata dal Giampiè e dal Coppola con la denuncia dei mali del loro ordine, fece fallire anche questo piano.
Il papa rimise l’affare ad una speciale congregazione cardinalizia, la quale consigliò di chiudere per sempre tutte le case olivetane dello Stato pontificio ad eccezione dell’Ospizio di S. Maria Nuova in Roma; ciò che avvenne col breve del 19 agosto 1831. I beni olivetani furono lasciati a disposizione della S. Sede, ma, subito dopo dietro richiesta di alcuni vescovi, destinati ai camaldolesi: L’operazione assunse agli occhi di molti olivetani il carattere di una vera e propria macchinazione.
Nel 1835 Roma concesse l’apertura di due noviziati, prescrisse il metodo d’educazione dei novizi e l’osservanza della regolare disciplina, ma al tempo stesso sminuì ulteriormente il prestigio degli olivetani con lo stabilire un semplice vicario di sua nomina, in luogo dell’abate generale, con decreto papale del 22 giugno 1835.
Proprio su questo punto dell’autonomia di governo si vennero focalizzando negli anni seguenti i maggiori contrasti: gli olivetani chiesero nel 1839 e nel 1842 la convocazione del capitolo generale prima per procedere loro stessi alla nomina del superiore e poi per attuare alcune modifiche alle costituzioni. Ma la S. Sede, se restituì il grado di abate generale, non stimò conveniente cederne la nomina all’organo costituzionale, per la mancanza di soggetti adatti. Non vennero infatti accolte le dimissioni del vicario Benedetto Bellini, per il sospetto che esse fossero l’effetto di pressioni interne e comunque, dopo la sua morte, si provvide, con altro decreto del 29 maggio 1841, a nominare direttamente il nuovo abate generale il palermitano Giuseppe Patti. Tale nomina avvenne per sopire le difficoltà del governo di Napoli, che in precedenza aveva protestato per l’elezione del Bellini.
La necessità di tenere sotto controllo la situazione disciplinare degli olivetani e la volontà di evitare ogni conflitto, con l’autorità politica spinsero la S. Sede ad avvalersi dell’arcivescovo di Firenze, Ferdinando Minacci. Questi negli anni 1843-1845 si trovò ad esercitare una difficile mediazione tra esigenze contrapposte, da un lato il governo toscano, che sulla base di denunce anonime era venuto a conoscenza di irregolarità morali e amministrative nei monasteri olivetani, dall’altro la curia romana che, ovviamente, ambiva esercitare la legittima autorità sulla vita interna degli ordini religiosi.
Obbligato a servire contemporaneamente due superiori il Minacci per un certo tempo riuscì a comporre le diverse esigenze. Per non turbare gli equilibri politici consigliò la S. Congregazione dei vescovi e regolari, di promuovere una visita “privata” agli olivetani da parte di un religioso toscano di altro ordine, da nominare dall’arcivescovo stesso dietro comunicazione al governo toscano.
Vagliate da una apposita congregazione cardinalizia, le proposte del Minacci, furono sostanzialmente approvate ed estese agli altri monasteri olivetani di Palermo e di Quarto, con la significativa clausola papale, che il breve per i visitatori, sarebbe stato spedito solo dopo che l’arcivescovo avesse riferito della non opposizione del governo toscano. Il decreto di Gregorio XVI è del 28 marzo 1843.
In base agli accordi presi con la S. Sede, il 17 giugno 1843 il Minacci suddelegava alla visita dei monasteri toscani i padri certosini Niccolai Leone e de Pathos Francesco Ferreira.
I risultati della visita, aperta pochi giorni dopo per S. Bartolomeo di Firenze e ai primi di luglio per Monte Oliveto Maggiore, furono del tutto scoraggianti, quanto all’osservanza della disciplina regolare, alle qualità morali dei membri, al loro attaccamento all’istituto.
Da parte sua il Minacci, incaricato dal governo di compiere una visita a Monte Oliveto Maggiore, aveva cercato di ridimensionare la portata delle denunce anonime, ma al tempo stesso, aveva provveduto ad espellere alcuni conversi dal monastero e a ordinare una muta di esercizi spirituali ai monaci da parte dei padri passionisti.
La diversità di orientamenti, di metodi e di finalità che avevano guidato i due visitatori venne emergendo nel settembre 1844. Mentre il visitatore “subdelegato” Niccolai considerava ultimata la sua opera ed era favorevole alla convocazione del capitolo, alla condizione di farlo presiedere da un estraneo e di restringere l’elezione del generale ad una terna di religiosi presentata dal papa, il visitatore “apostolico” e “regio” Minacci era insoddisfatto delle risultanze del Niccolai, perché voleva integrarle con le informative dei parroci e dell’ordinario locale nonché elaborare un nuovo e più radicale piano di riforma basato sull’apertura permanente della visita e sulla trasformazione dell’archicenobio olivetano in monastero di ritiro e di stretta osservanza.
Per allontanare la minaccia di un controllo quotidiano del metropolita fiorentino, i monaci olivetani si rifugiarono sotto la protezione del governo toscano e il 3 settembre 1844 riuscirono ad ottenere una dichiarazione di chiusura della visita apostolica. Il Minacci reagì contro la Segreteria del regio diritto e chiese al granduca di protrarre l’esercizio della sua giurisdizione straordinaria su Monte Oliveto Maggiore al fine di ripristinarvi la disciplina. Leopoldo concesse la proroga fino al novembre successivo, pregando tuttavia l’arcivescovo di concordare con la Segreteria del regio diritto ogni decisione in materia temporale e di disciplina esterna. Poiché alcuni monaci continuavano ad agire presso il governo e a spargere la voce che l’arcivescovo non aveva più alcuna autorità su di loro, la S. Sede, dietro istanza del Minacci, attuò nel febbraio 1845 un ulteriore giro di vite ordinando che la visita continuasse, che i monaci olivetani riconoscessero il visitatore apostolico come loro superiore delegato dalla Sede Apostolica, che essi gli ubbidissero sotto pena di sospensione a divinis e che fossero di nuovo proibite a tempo indeterminato vestizioni e professioni (Decreti del 20 settembre 1844 e del 21 febbraio 1845).
La commissione cardinalizia chiamata ad esprimersi nel giugno 1845 sulla situazione olivetana, continuando lo stato d’insubordinazione disciplinare, invocò “un provvedimento radicale ed efficace”. Ma la pressione romana aveva già toccato la punta massima.
Scartato da tempo un provvedimento di soppressione, non rimaneva che affidare i resti della prestigiosa congregazione al governo di quel manipolo di monaci che con libera scelta si erano riuniti nel monastero di Quarto per vivere la regola in piena osservanza.
Il 17 novembre 1845 Gregorio XVI accordò finalmente – se pure sotto la presidenza del vescovo Ciofi di Chiusi e Pienza – la convocazione del capitolo dell’ordine, da cui uscì generale un esponente del gruppo “osservante”, l’abate Ignazio Dinegro.
I monasteri olivetani erano ridotti a quattro (i due toscani, quello di Quarto e di Palermo) con l’ospizio di S. Maria Nova di Roma (che però sarà reintegrato di lì a poco al rango di monastero da Pio IX).




L’inchiesta di Pio IX e la riforma degli ordini religiosi.

La premura di Pio IX per il rinnovamento della vita religiosa si estrinsecò sostanzialmente nella creazione, il 7 ottobre 1846 d’una speciale congregazione “De Statu regularium ordinum” e nell’accurata vigilanza sulla vita dei vari istituti, con particolare attenzione alla scelta dei superiori generali.
Punti di riferimento essenziali delle attività del nuovo organismo furono la Relazione del Bizzarri dei primi mesi del 1846 che costituì il manifesto della riforma da intraprendere e l’inchiesta statistica conoscitiva e consultiva con la collaborazione non solo dei superiori generali ma anche dei vescovi.
Le risposte dei superiori riflettevano una situazione tutt’altro che esaltante, perché non solo il principio fondamentale della vita comune veniva più o meno apertamente vulnerato ma si era lontani da volerlo praticare nell’immediato futuro.
In sostanza, le risposte dei superiori al questionario della congregazione papale confermavano la maggior parte degli elementi negativi diagnosticati per i vecchi ordini dalla “Relazione” del Bizzarri: inosservanza del voto di povertà nella quasi totalità dei monasteri, scarsa formazione dei novizi, affievolimento nell’osservanza della regola e delle costituzioni, inapplicabilità e obsolescenza di molte norme statutarie.
Pio IX non ebbe alcun dubbio sulla necessità d’iniziare la riforma a partire dai criteri di ammissione al noviziato: Con due decreti del 25 gennaio 1848, vennero introdotti a somiglianza di quanto avveniva già per il clero secolare una serie di controlli da parte dei vescovi sui candidati al noviziato e da parte di un duplice corpo di esaminatori della provincia e del generalato dell’ordine sui candidati alla professione.
Il primo decreto introduceva, per i candidati alla vita religiosa, l’obbligo di presentare le lettere testimoniali degli ordinari della diocesi di origine e di quelle ove fossero vissuti almeno un anno dopo il quindicesimo. Pio IX fece appello anche alla sua suprema autorità per introdurre in tutti gli ordini un periodo triennale di prova prima della professione solenne, con facoltà dei superiori generali di protrarlo fino a venticinquesimo anno.
Tra le misure varate con la circolare della Congregazione dei vescovi e regolari del 12 aprile 1851: il ristabilimento della legge del deposito comune in tutti i conventi, con la revoca di ogni eccezione ammessa prima, al divieto dei religiosi di usare il loro peculio; l’immediata introduzione della vita comune nei conventi di noviziato e la prescrizione della perfetta osservanza delle rispettive costituzioni nei conventi di studio, questi furono gli elementi innovativi che indicavano a sufficienza il significato della svolta voluta da Pio IX per gli ordini religiosi, dopo che le dispersioni napoleoniche avevano modificato e per un certo verso semplificato i termini di molte questioni e dibattiti secolari.




Modelli di razionalizzazione statuale del clero regolare.

Le premesse culturali e politiche della prima ondata di soppressioni, quella dei piccoli conventi, da parte degli Stati italiani tra il 1768 e il 1772 vennero dalla Francia. Ne sono prova
la traduzione di opere prevalentemente ispirate dalla Commission des réguliers e la catena di provvedimenti di abolizione in concomitanza con l’esempio francese del marzo 1768: Modena nel luglio-agosto, Venezia nel settembre, ducato di Milano alla fine del 1768, Parma nel febbraio 1769, Regno di Napoli tra il dicembre 1768 e l’agosto 1772, Regno di Sardegna tra il 1768 e il 1774, Ducato di Mantova tra settembre 1771 e i primi del 1772.
Nella Toscana lorenese la riforma dei regolari ebbe al pari di molte impegnative riforme una complessa incubazione e uno sviluppo poco lineare per ragioni di politica interna e per ragioni di carattere monastico, come l’allineamento alla politica di Giuseppe II.
E’ certo che per la sua natura costitutiva la Congregazione Olivetana, subì danni più gravi perché si volle con le soppressioni recidere i rapporti anche finanziari dei monasteri con la casa generalizia mediante l’istituzione di casse nazionali (locali) e subordinare in tutto i religiosi ai rispettivi ordinari diocesani salvo che per le regole claustrali e per quelli di Lombardia, obbligare i novizi a compiere i loro studi universitari a Pavia.
Anche in Toscana Pietro Leopoldo e Scipione de’ Ricci avevano maturato la convinzione della necessità di rescindere i vincoli di dipendenza tra i conventi della medesima provincia e quelli tra i conventi, la curia generalizia e la curia romana.
Il granduca nel determinare le soppressione preferì adottare come abbiamo visto, una linea graduale e pragmatica piuttosto che applicare misure improvvise e piani sommari. Nella maggior parte dei casi furono colpiti solo quei conventi che disponevano di risorse insufficienti e che presentavano una famiglia alquanto inferiore al numero canonico.
In Toscana l’interesse prioritario fu quello di riorganizzare le istituzioni pastorali e una parte non indifferente del patrimonio monastico rimase in seno alle diverse congregazioni, volendo operare una razionalizzazione della loro fisionomia istituzionale attribuendo compiti socialmente utili, talora rilevanti e quindi il riconoscimento da parte del governo delle funzioni sociali e religiose del movimento monastico.
Il momento traumatico fu certo rinviato alle soppressioni napoleoniche che attueranno una pressoché completa eversione del patrimonio ecclesiastico-regolare, ma soprattutto, sottrarranno ogni motivo di legittimità o di plausibilità statuale alla vita contemplativa.

Trasformazioni costituzionali e identità monastica.

La scelta di una forma organizzativa di tipo centralizzato comportò una diversa incidenza per gli ordini monastici. In essi, il passaggio al modello congregazionale significò la negazione del tradizionale carattere autocefalo delle abbazie e la sostanziale trasformazione dei capisaldi istituzionali dell’esperienza monastica precedente, quali:
- il regime vitalizio dell’abbaziato,
- l’elezione diretta da parte dei monaci del loro padre
- il voto di stabilità dei professi
- il principio dell’autonomia giuridica, religiosa ed economica della singola abbazia
Il modello di S. Giustina se fu una risposta alla crisi del monachesimo in età tardo-medievale fondata ed elaborata sull’esperienza religiosa del Barbo, fu storicamente un’imitazione e una sostituzione, inizialmente anche di luogo, dell’impostazione collaudata da quasi un secolo degli Olivetani, con la differenza che gli Olivetani erano congregati “in Unum corpus” mentre i monasteri nei confronti di S. Giustina venivano confederati soltanto.
La riforma congregazionale veniva ritenuta poco funzionale sia alla politica clientelare dei principi che agli interessi economici di certi settori della nobiltà e della cittadinanza. Si manifestava una certa riluttanza delle autorità civili a consentire l’aggregazione di monasteri situati nel proprio territorio a congregazioni estranee.
Allo stesso modo ai vertici delle congregazioni l’avvicendamento prima annuale poi triennale dell’abate generale e dei definitori era divenuto nel corso del seicento occasione pressoché continua di contesa e di antagonismo tra nazione e nazione, anche se per gli olivetani si attuò un patteggia- mento basato su regole “politiche” di turnazione e di scambio.
Un certo indebolimento del sistema congregazionale va ricercato tra fine settecento e inizi ottocento, come abbiamo già notato, nell’accentuata interferenza degli Stati, la maggioranza dei quali richiese il requisito di nazionalità nelle elezioni degli abati locali e generali, impose controlli sulla celebrazione dei capitoli generali e soprattutto attuò la separazione dei conventi nel loro territorio dalla dipendenza dei superiori generali o dal resto dell’Ordine.
La sostanziale paralisi in cui venne a trovarsi nel corso dell’ottocento il sistema congregazionale e la convinzione di alcuni iniziatori della rinascita benedettina transalpina, come il Guéranger e il Wolter, che una nuova fioritura benedettina fosse inscindibile dalla riscoperta della ‘stabilitas loci’ del monaco, intesa come regime permanente e quadro materiale di vita in mezzo al quale attualizzare il senso dell’esclusiva appartenenza a Cristo, condussero al recupero dell’altro correlativo principio, quello della “paternità spirituale”dell’abate e del carattere vitalizio del suo ufficio. (cfr. Bedonelle G. Paris, Ed. du Cerf. 1991, pp.207-215. Salmon, L’abbé dans la tradition monastique, cit. pp.140-142).

Il nuovo regime di governo presso gli Olivetani.

Presso gli Olivetani il nuovo regime di governo venne adottato nel 1886, al termine di trentasei anni di discussioni sulla magna quaestio della riforma delle Costituzioni. (cfr. O. Donatelli, Le costituzioni olivetane del 1886 e il contributo dei due Schiaffino, in Placido Maria Schiaffino (1829-1889) monaco e cardinale- Atti del X incontro di Monte Oliveto 22-23 settembre 1989, Siena, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, 1991, pp.76-98).
Due tendenze opposte si confrontarono e resero incerto l’esito fino all’ultimo: quella maggioritaria, capeggiata dal restauratore dell’osservanza Giovanni Schiaffino, che voleva rispettare il corpo degli statuti precedenti e non intendeva “profanare” una consolidata tradizione olivetana, l’altra minoritaria, promossa dal generale Placido Schiaffino che sotto l’influsso delle esperienze di Solesmes e di Beuron, avvertiva la necessità di porre alla base della ricostruzione normativa la regola.
Se storicamente avviciniamo i più influenti riformatori della vita monastica nell’ottocento e cioè il Guéranger per Maredsous anno 1872 e i fratelli Wolter Mauro e Wolter Placido per Beuron nel 1863, scopriamo che furono personaggi estranei per formazione alla tradizione monastica o avevano un limitato bagaglio di conoscenze e di esperienza benedettine.
Se Guéramger operò in una situazione di piena libertà dal potere politico, i due fratelli Wolter rimasero sotto la protezione della nobiltà e dello stesso imperatore.
L’influsso che i Wolter esercitarono su Placido Schiaffino fu determinante per la Congregazione Olivetana. La convergenza verso una comune base culturale e spirituale ebbe un’importanza decisiva che rafforzò la loro iniziativa individuale. Vollero ridefinire l’identità distintiva dell’ordine benedettino in termini di una radicale presa di distanza dall’esperienza congregazionale e di un forte recupero di quello che si riteneva l’ideale monastico “originario” identificato con il modello benedettino del XII secolo.
Ma questa scelta portò ad una contraddizione. Venne elaborata una dottrina monastica che si avvaleva al tempo stesso di elementi tradizionali e originali, in cui prevaleva nettamente un’ecclesiologia medievale sulla spiritualità tridentina, le forme organizzative di tipo paternalistico ed autocefalo su quelle rappresentative, l’orientamento di vita contemplativa su quella attiva degli altri ordini, la celebrazione liturgica sulle attività caritative.
E’ certo che anche la convinzione della curia romana, subordinava il significato della vita contemplativa degli ordini religiosi ai compiti di carattere pastorale ed educativo.
Lo scarto evidente tra le direzioni strategiche intraprese dai vertici ecclesiastici e l’aspetto costitutivo della propria identità contemplativa, portava a privilegiare gli Ordini di vita “mista”, sia perché tale era lo spirito”del secolo presente” e anche perché lo spirito di contemplazione e di fervore si era illanguidito.
Concludendo, dalla seconda metà dell’ottocento sarebbero superate le ragioni di un condizionamento, proveniente dalla divisione politica in stati regionali, ma la realtà di uno stato unitario e accentrato avrebbe favorito anche il pieno e libero esercizio di una Congregazione centralizzata.

1 commento:

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